Esistono ancora delle regole che sentenziano cosa entra oppure no nel guardaroba maschile? Come in passato, ci sono ancora dei trend così preponderanti da definire chi sia, o chi non sia, in termini di stile, l’uomo della stagione corrente? Domande non del tutto scontate quando ci si trova a parlare dell’evoluzione del menswear e del suo corso odierno, costruito su un abbigliamento da sempre molto categorizzato e categorizzante, soprattutto se confrontato con quello femminile, ma ora in parte libero da preconcetti o costrizioni formali. A guardare infatti i look che sfilano sulle passerelle di grandi e piccoli luxury brand, la strada della ‘liberazione’ del guardaroba maschile sembra essere più che calcata: polo con shorts in denim e mocassini chunky in pelle, camicie oversize in organza abbinate a gonne e ballerine (tra gli ultimi must have di stagione proprio per l’uomo), tank top logati nascosti sotto completi sartoriali destrutturati e borse, di ogni taglia, forma e colore. Sono solo alcuni dei tantissimi esempi di come l’uomo venga rappresentato oggi nella sua complessità.
In una partita dove, quindi, ogni carta sembra essere stata finalmente scoperta, l’unica vera regola rimasta a dettar legge sembra essere quella del mercato, che volgendo il proprio occhio sulla strada (a intendere come si vestono realmente le persone nel quotidiano) chiede a un marchio di coprire ogni area merceologica possibile, e soprattutto, ogni archetipo. “Nella moda uomo oggi poche cose sono innovative – spiega lo stylist Simone Rutigliano -. I look vengono solitamente creati (dai marchi, ndr.) mantenendo già alla base un immaginario ben specifico rispetto a quelle che saranno le categorie di uomo che si vuole andare a soddisfare”. L’uomo della finanza, il militare, la pop-star, il tennista (attualmente immancabile nelle proposte dei luxury brand), il surfista o il marinaio, nessun modello viene lasciato al caso, che sia ricodificato tramite le creazioni di una collezione main o di una cruise. “La sfida per i brand è ripescare una di queste figure e renderla moderna ridisegnando quelli che sono dei costumi già presenti nella nostra società, dei riferimenti già ‘masticati’ a partire dagli anni ‘60 e ‘70. Non c’è mai effettivamente la creazione di un trend, perché, rispetto ad esempio alla moda femminile, è molto più difficile ideare qualcosa di nuovo”.
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A concordare sulla mancanza di linee stilistiche predominanti e su una ‘moda di moda’, sono anche alcuni dei principali top buyer italiani: “A differenza delle altre stagioni non percepisco un’inclinazione commerciale delineata ma non si tratta di un fenomeno negativo. Anzi, è interessante perché si ricomincia a personalizzare le nostre boutique e le nostre scelte – dichiara Beppe Nugnes, fondatore dello store Nugnes di Trani -. Non c’è una linea unica, c’è una predominanza di quiet luxury, ovvero un classico evoluto. Questo fenomeno esiste ma se siamo bravi possiamo farlo diventare un punto di forza a nostro favore. Gli elementi importanti per non sbagliare sono sempre gli stessi: qualità, prezzo e distribuzione”. È sulla stessa lunghezza d’onda Daniela Kraler delle boutique sudtirolesi Franz Kraler: “Ormai vivo il menswear al di là delle tendenze. Abbiamo vari tipi di clienti, sia italiani che internazionali. Personalmente mi piace fare un mix di tutto ciò che possiamo offrire a seconda delle ore della giornata e dei momenti: lavoro, sera, weekend, vacanza. Ho ripreso il made to measure pensato proprio per lui, non seguo più i fenomeni moda in quanto tali”.
“Non c’è più una tendenza netta, c’è una molteplicità di spunti”, riassume Paolo Molteni, CEO della storica rete di luxury store Tessabit. “Quello che vedo – continua – è una ricerca verso l’essenzialità della moda: semplicità e qualità. Ricerca sui tessuti, sui colori, di conseguenza si riduce l’idea dei loghi in favore di un pulizia generale. L’onda lunga del quiet luxury continua ma non c’è più un formale esasperato bensì un casual essenziale rappresentato ad esempio dalle overshirt in vari materiali declinate in colori naturali, casual e chic”. C’è chi, come Federico Giglio, a capo delle boutique palermitane Giglio, auspica il ritorno di una propensione all’azzardo: “Nell’uomo, ma anche nella donna, non ci sono grandi tendenze. Siamo reduci da un periodo molto forte di streetwear e di una moda urlata, poi si è andato verso il quiet luxury, conseguenza del momento sociale che stiamo vivendo. Eppure servirebbe una tendenza forte altrimenti i clienti non si sentono spronati. Mi sembra ci sia da parte delle aziende un timore nel volersi esporre, nel voler presentare qualcosa di più forte. Vorrei vedere proposte nuove, prodotti che facciano dire ai clienti ‘questo mi manca!’”.
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Una variante da non sottovalutare mai, soprattutto in queste stagioni, è il prezzo finale. “È un periodo non facile per la moda in generale, c’è molta consapevolezza da parte dei brand nel proporre collezioni adeguate al momento, quindi con qualità e prezzi equilibrati. E poi c’è la ricerca, oggi più che mai ogni brand dovrebbe rispettare la sua personalità e individualità. Nell’insieme tutti cercano di proporre indumenti innovativi in termini di stile, qualità e messaggio. Il consumatore finale ha bisogno di essere un po’ sollecitato. Noi proponiamo prodotti consapevoli ma anche un po’ diversi, prestando sempre attenzione al momento che viviamo”, spiega Carla Cereda Biffi delle boutique milanesi Biffi e Banner. Il costo è dunque, ora più che mai, un elemento centrale nella scelta degli acquisti, anche nell’alto di gamma. “Il quiet luxury ha rappresentato un atto di pulizia ma ha anche impattato sulle vendite perché spesso le collezioni si somigliano molto. Di conseguenza anche le proposte sono un po’ omogenee e quindi il consumatore pensa: perché devo pagare 2mila euro per una semplice giacca apparentemente uguale a quella di 600?”, si chiede Claudio Betti delle boutique liguri Spinnaker.
In questa operazione di riscoperta continua, che segue rigorosamente delle logiche di mercato, quello che spesso viene a mancare è però – sottolinea Rutigliano – “la componente del sogno”, un elemento che andrebbe forse riscoperto più di qualsiasi core e che si scontra proprio con l’idea di un abbigliamento ‘standardizzato’, di una divisa, che – come precisa Frisa – “per l’uomo è sicuramente il completo”, formato da giacca e pantalone. “La divisa è stato il punto di partenza – aggiunge Rutigliano -. Siamo partiti da una divisa per cercare di liberare noi stessi, per provare a scardinare dei prodotti che diventano delle etichette – una t-shirt bianca, un pantalone nero, continuamente riproposti in diversi colori e tagli -, quando poi, paradossalmente, la giusta divisa, è quella che una volta indossata ci fa stare meglio”.
L’articolo è presente sul numero di giugno/luglio di Pambianco Magazine