In un sistema dove prevalgono logiche commerciali, anche la creatività – e nel dettaglio temi complessi come l’erotismo e la femminilità – risulta ‘sbiadita’. A influire, anche il rischio per la reputazione del brand.
Anche il profitto ha il suo prezzo, oggi forse più che mai. Negli ultimi mesi la moda si è fermata a riflettere su quanto un settore da sempre manifesto e specchio di rivoluzioni ideologiche e libertà di espressione sia diventato sempre più un sistema di capitalizzazione per magnati alla guida di conglomerati e sempre meno un palcoscenico per temi che interessano da vicino il presente. Questo perché alla radice c’è un meccanismo che nel tempo ha reso la moda, che fino ai primi anni ‘90 era un fenomeno di nicchia per insider ed appassionati, un canale mainstream dove la credibilità degli abiti è misurata solo in base alle vendite online e in store. E la conseguenza, in un mercato che pretende di creare margini sempre più alti con borse e rossetti, è stata ‘l’appiattimento’ della proposta, che mette in secondo piano, oltre che il ‘sogno’ (come suggeriva Renzo Rosso, patron di Otb, dopo la presentazione dell’ultima sfilata couture di Maison Margiela, ndr), anche concetti sempre più complessi quali l’eros, il corpo e il tipo di femminilità che questo esprime. Concetti che nel womenswear hanno da sempre richiesto una forte riflessione da parte dei designer, con la ricerca di messaggi capaci di scavare costrutti sociali del tempo, e che oggi – in uno scenario dove a indicare la via dello stile delle maison ci sono prevalentemente uomini -, vengono raramente affrontati, apparendo più ‘sbiaditi’ e seppelliti sotto la richiesta di un prodotto vendibile.
“Siamo in un difficile periodo di passaggio, dettato da una congiuntura economica un po’ complessa che porta tutti i brand che fanno parte dei conglomerati a tirare il freno della creatività, perché di base si vuole rassicurare il consumatore – spiega Giuliana Matarrese, critica di moda ed editor at large per Linkiesta Etc -. E parlando di sessualità e dell’eros, a parte il tentativo molto intellettuale che sta facendo Pieter Mulier da Alaïa, da una parte l’idea di donna viene oggi spesso ‘infantilizzata’, resa tutta fiocchi e pizzi (in un immaginario un po’ ‘crochet’); dall’altra invece il suo percorso viene sempre più utilizzato come strumento di marketing, per parlare in maniera blanda di empowering femminile, senza però scatenare un ampio dibattito. Basti pensare al Mugler disegnato da Casey Cadwallader, che ha depauperato il marchio dalle fortissime riflessioni che aveva fatto Thierry Mugler (stilista fondatore del marchio scomparso nel 2022, ndr) sul ‘mostruoso femminile’ o sulla donna come macchina. Va detto però che esistono anche casi come quello del giovane LaQuan Smith, che ha un’estetica molto ‘body conscious’, e di case di moda come Dolce&Gabbana, per cui parlare di erotismo o di femminilità è parte del dna ed è coerente nel percorso di rivisitazione del proprio heritage. In entrambi i casi però, e questo fa riflettere, i brand non fanno parte di grandi conglomerati”.
In questo quadro c’è poi da aggiungere che il mondo iperconnesso fa affiorare nuovi rischi di fronte al tentativo di scavare a fondo nella creatività. Nonostante attualmente i brand abbiano riproposto quasi tutti i core del passato, hanno preferito non tornare nuovamente su estetiche molto più sessualizzanti legate agli anni ‘90 e 2000, anche perché, sottolinea Matarrese “andrebbero potenzialmente incontro a un problema di gestione della reputazione, con annesso pericolo di shit storm mediatico, dove le immagini riescono a raggiungere molto velocemente anche fette di popolazione che normalmente non si interesserebbero di sfilate”. “In generale – aggiunge Matarrese – penso che raccontare oggi di eros sia per i marchi estremamente ‘pericoloso’. Trattarne vuol dire parlare di corpi, e parlare di corpi oggi è diventato un atto politico, specialmente per un discorso legato ai diritti riproduttivi, che vedono posizioni retrograde da parte di molti Paesi”.
La moda però, se non parla tanto di corpi e di eros, è anche perché si fa spesso strada la paura di cadere in una rappresentazione generalmente considerata ‘volgare’. Un concetto figlio di uno stereotipo borghese, diviso tra cosa siano buono e cattivo gusto, che ancora oggi riaffiora nei commenti scritti sotto i post delle campagne dei marchi in quanto ci permette di evitare il confronto con argomenti che ci mettono a disagio, come il rapporto con il nostro corpo e con quello degli altri.
“Per me tutto può essere considerato volgare come tutto può risultare elegante – spiega Salvo Rizza, founder e direttore creativo di Des Phemmes -. Trovo ci sia un grosso divario: un abito di Versace che un tempo poteva suscitare scalpore oggi passerebbe magari inosservato in passerella, mentre se si pubblica sui social uno scatto con fuori dei capezzoli il post viene censurato. Come designer, un aspetto fondamentale quando disegno una collezione, ma anche quando faccio i fitting insieme alle modelle, è domandarmi (interrogando poi anche loro): ‘quanto ti senti a tuo agio in questo abito?’ Perché alla fine, per quanto possa sembrare banale, la vera differenza la fa come si sente la persona che indossa quel capo, se sente di appartenervi”.
A rendere possibile queste domande è anche una questione molto pratica, che riguarda proprio chi su certi temi lavora quotidianamente. “Quando si parla di femminilità e nello specifico di nudo nulla può essere improvvisato, tanto meno la comunicazione – commenta Andrea Adamo, founder e direttore creativo del brand omonimo -. Bisogna sempre essere credibili e fedeli alla propria identità. E posto che il capo lo esprime chi lo indossa dandogli una forma, e che quindi questa forma sia mutevole, in passerella come negli scatti di una campagna pubblicitaria penso che nel nostro lavoro per garantire la riuscita del messaggio che si vuole veicolare servono anche i giusti interpreti: il casting più adatto, il fotografo con il giusto immaginario e un progetto di styling accurato. Anche se poi, in ultima battuta, la volgarità rientra nella sfera del soggettivo, proprio come la sensualità o la bellezza, in quanto qualcosa che si struttura in base all’educazione e al proprio vissuto”.