L’intervento normativo può diventare un pilastro per un approccio sistemico alla sostenibilità aziendale. Secondo Valentina Pepe, esperta in diritto del lavoro, è in atto una vera e propria rivoluzione in questo senso.
Solamente fino a pochi anni fa, la diversità di genere rappresentava, nel mondo del lavoro e quindi anche nel settore della moda, un tema principalmente sociale, lavorativo e relazionale, piuttosto che oggetto di normazione. Oggi, stiamo assistendo a una rapida evoluzione sotto la spinta della Comunità europea e della sensibilità europea. Questo ha portato, nel 2022, alla emanazione di due importanti norme: innanzitutto la legge 162 del 2021 che è intervenuta modificando ad esempio alcune rilevanti disposizioni inserite nel Codice delle Pari Opportunità. Poi, il decreto legislativo 105 del 2022, che ulteriormente è intervenuto con disposizioni finalizzate a migliorare la conciliazione tra attività lavorativa e vita familiare per i genitori e per i prestatori di assistenza, i caregiver.
Un ultimo passo molto interessante, “del quale sentiremo parlare nei prossimi anni è l’ultima direttiva sulla trasparenza salariale nell’Unione europea che è stata approvata il 10 maggio del 2023 e che quindi è già in vigore e dovrà essere recepita anche dall’Italia (entro il 2026), ma sicuramente è una tematica innovativa perché interviene su tutta quella che è la disciplina della trasparenza retributiva”, sottolinea l’avvocato Valentina Pepe, Partner di Pepe & Associati, esperta di diritto del lavoro e di relazioni sindacali. “Noi – evidenzia – abbiamo sempre assistito sino ad oggi ad una logica inversa: la privacy che copre la riservatezza di questi dati, primo fra tutti la retribuzione. Ecco che adesso assistiamo ad una inversione delle logiche: la privacy, che è sempre stata rappresentata come un principio basilare, cade dietro al divieto di discriminazione e alla volontà di rendere cogente la parità di genere bel mondo del lavoro”.
Una normativa che l’avvocato non esita a definire “dirompente” perché “interverrà sui sistemi di valutazione e classificazione professionali neutri sotto il profilo del genere. Non ci sarà più il segreto salariale e dunque una lavoratrice che si ritiene discriminata, a pari condizioni rispetto a un collega maschio, avrà il diritto di chiedere quanto percepiscono i colleghi nella stessa posizione. Ci sarà l’obbligo in sede di offerta lavorativa di inserire anche l’elemento della retribuzione”. Tutti aspetti che ci portano a comprendere che siamo in presenza di un grande periodo di cambiamenti.
Esiste ovviamente l’altra faccia della medaglia di una questione molto complessa: realtà nelle quali “questo tipo di sensibilità rischia di essere adempiuta adottando politiche che risolvono il problema a monte, senza affrontarlo veramente e arrivando quasi a una discriminazione al contrario. In sostanza, non si premia il merito, ma non si rischia di risultare all’esterno un’azienda con caratteristiche ‘negative’”. Un esempio? Assumere nel solo rispetto di metriche che impongono o invitano a quote precise in termini di genere in tutte le sue estensioni possibili. “Un pericolo – spiega il legale – che con questa ‘politica di eticizzazone’ delle aziende ci portiamo dietro. È accaduto con i temi della sostenibilità, della transizione ecologica. Le deviazioni ci sono sempre state. In questo tipo di contesto, paradossalmente, le donne manager sono le prime a rabbrividire in primis davanti alla parola ‘quote rosa’”.
Queste ultime, che rivendicano un pari trattamento rispetto ai colleghi uomini, “si sentono svilite all’idea di fare carriera per una quota. Questa è la grande opportunità per cogliere questo tipo di transizione: la quota, entrando in una lettura più sociologica, è molto maschile. Una deriva che per prime le donne vogliono combattere sapendo che non è quella la via per ottenere la parità. Sicuramente ci sarà molto da lavorare in termini di assestamento su una applicazione corretta di queste nuove politiche”.
Un aiuto concreto però è offerto dalle certificazioni sulla parità di genere, che sono state introdotte senza essere obbligatorie, ma che vengono incentivate con benefici alle aziende. Ad esempio, la certificazione dalla legge 162 del 2021, “utilizza tantissimi criteri all’interno di un’azienda che vanno a superare queste logiche: criteri – spiega Pepe – di cultura e strategia, di governance, di processi HR, di processi di crescita e inclusione delle donne. Non intesi in quanto a ‘numero’, ma delle politiche di crescita, di parità di condizioni, di carichi genitoriali”. Dunque, misure non volte a fare entrare più donne in azienda ma che, combattendo il disequilibrio, consentono poi una crescita. Misure “che partono dal sociale”.
Insomma, più che concentrarsi sull’ingresso di quote rosa o multicolore in un’azienda, la vera rivoluzione è intervenire quando le persone sono “all’interno dell’azienda. È il cambio di cultura che consente una vera parità di accesso”. Non una maschilizzazione della donna, ma un arricchimento”. D’altra parte, è evidente “che quando le donne vengono poste al comando assistiamo a cambi di prospettiva, di crescita, a importanti casi di successo”.
Il concetto di parità nel mondo del lavoro è molto ampio e trasversale, nel senso che riguarda i livelli più bassi fino agli apicali. In questo momento storico, se pensiamo alle realtà produttive, magari svolte su turni, sono ancora retaggio maschile. Questo per la necessità di fare fronte a necessità familiari. Diverso nei livelli apicali. “La spinta che ci può essere oggi parte da qui” chiosa l’avvocato Pepe. “Il cambio è più facilmente applicabile e può portare evidentemente a un cambiamento, poiché può influire sulla struttura stessa dell’organizzazione e può avere ricadute positive anche sulla produzione. Quello che vediamo oggi nel retail, così come nella gdo, è che molte sono le donne nei ruoli di marketing e comunicazione. Calano drasticamente i numeri nel commerciale, nelle attività della supply chain o anche la direzione generale. Queste sono le aree più importanti di intervento: lo sviluppo in alcune aree più legate a logiche di occupazione maschile”. Ecco allora che il cambio ai vertici può introdurre un cambio di mentalità e l’introduzione di modelli virtuosi anche perché una donna al comando può avere una sensibilità e una elasticità maggiore.
La forzatura normativa, che può portare anche a eccessi e storture nell’interpretazione, può però agevolare, indurre il cambiamento? Sì se si pensa a quanto accaduto nel campo del lavoro agile e dello smart working. “Inizialmente – fa notare Pepe – sono stati introdotti quasi per una questione più legata all’immagine. Con la pandemia non possiamo più tornare indietro. Con il progresso, l’importanza che l’azienda attribuisce alle scelte del consumatore, i temi sociali e sociologici saranno sempre più importanti nella gestione dell’azienda come componente del business. Più del marketing, dell’attrazione dei talenti, della retention delle persone. Temi che non sono più solamente un bollino, ma condizionano l’andamento dell’azienda.La modifica normativa spinge anche le aziende, i referenti, i responsabili HR a dover verificare, capire e quindi tutte quelle che oggi sono opere di sensibilizzazione, iniziative volte alla formazione sono fondamentali, come ai tempi erano state quelle sul lavoro agile. La norma va coltivata con tutto un sistema di formazione e informazione”.
La moda ha recepito questo cambiamento? Gucci, per esempio, nel 2023 ha conseguito la certificazione di parità di genere, una certificazione volontaria che le aziende possono richiedere per attestare la conformità dell’organizzazione ai principi di parità di genere nella retribuzione e nelle opportunità di carriera. Tra le realtà più piccole e non quotate Lardini è stata recentemente certificata dall’ente Bureau Veritas. Le ultime, in ordine di tempo, la maison Valentino e recentissimamente il Gruppo Tod’s e la realtà di eyewear Marcolin. Altre società hanno intrapreso l’iter per ottenere il riconoscimento, come, ad esempio, Moncler. Ma, come sottolinea l’avvocato, “nel mondo della moda e del lusso, i gruppi internazionali hanno già implementato politiche interne volte alla parità. Soprattutto i grandi player del luxury internazionali hanno policy strutturate volte in particolare alla lotta alla discriminazione.
E la lotta alla discriminazione coinvolge ovviamente anche il tema della parità di trattamento. Tant’è che queste importanti realtà vedono diverse donne in ruoli direttivi”. In questo, si tratta di un settore che conosce delle logiche virtuose consolidate. Ci sono anche realtà dove la proprietà è più tradizionale dove queste tematiche ancora non hanno ottenuto la giusta valorizzazione. “È in queste che si deve lavorare. Ma sono sicura che nei prossimi mesi se ne sentirà molto parlare, perché, in definitiva, sta diventando un tema ‘reputazionale’. Sia nei confronti della clientela, sia nei confronti del personale”. Insomma, “un tema che se fino ad oggi è stato trattato in maniera superficiale o in quanto adempimento dovuto, in futuro verrà sviluppato con altri obiettivi”.
Oggi tutto il tema della parità di genere, dell’etica, della reputazione dell’immagine e dei valori di un’azienda sono fondamentali. Più del marketing. Un’azienda che vuole promuovere dei valori e spingere su leve emozionali del consumatore e al suo interno non riesce al presentarsi come una realtà che riesce a superare le discriminazioni, avere attenzione alla disabilità, alla sostenibilità ed ecologia, non è destinata ad avere un impatto positivo verso la clientela. “È la conferma – chiosa Pepe – che oggi ci stiamo spostando sempre più dalla vendita di un prodotto a un sistema valoriale”.