In Italia il 16% degli acquisti fashion effettuati online si traduce in un reso. Un dato che va letto non tanto come indice di virtuosità dei comportamenti digitali degli italiani, quanto, piuttosto, come conferma del gap del Belpaese rispetto agli altri Paesi europei, dove l’e-commerce di moda è più sviluppato e genera, quindi, anche una percentuale maggiore di returns. A scattare una fotografia del panorama dei resi online nel mondo della moda è Yocabè, startup fondata da Vito Perrone e Lorenzo Ciglione per supportare le aziende nel commercio digitale e a interfacciarsi con i marketplace che lo popolano, nel report ‘Guida ai resi nel mondo dell’e-commerce’. Secondo lo studio, ogni reso, spesso gratuito per il consumatore finale, può costare alle aziende fino a 30 euro.
Il dato italiano del 16% rappresenta la percentuale più bassa d’Europa secondo Yocabè. A svettare nel Vecchio Continente sono la Francia, in cui il 24% dei prodotti acquistati viene rispedito al mittente, la Germania con il 44% e la Svizzera che totalizza addirittura un 45% di articoli restituiti.
Una quota, dunque, ridotta se considerata all’interno del quadro europeo, che rispecchia, appunto, il ritardo italiano sul fronte della digitalizzazione. Il dato non sarebbe dunque, secondo la startup, indice di un comportamento d’acquisto virtuoso e oculato ma il sintomo di una ancora scarsa familiarità con il consumo digitale. Secondo l’ultima statistica Desi – Indice di digitalizzazione dell’economia e della società, infatti, l’Italia è al 18esimo posto sui 27 stati membri.
In generale, secondo una statistica condotta da SaleCycle, in media nel mondo torna indietro un prodotto acquistato online su cinque: il 20% di tutti gli acquisti digitali viene reso, mentre nell’offline non si arriva al 10 per cento. La stima del valore di tutti i resi globali è di circa 550 miliardi di dollari e solo l’Europa genera il 23% di questo importo, con circa 126 miliardi.
E la cifra è destinata a crescere vertiginosamente, considerando che i resi nel Vecchio Continente aumentano del 63% all’anno, con la moda in testa per produzione di resi (56 per cento).
Dal punto di vista merceologico, i prodotti restituiti con maggiore frequenza dagli acquirenti online italiani sono, nell’abbigliamento, i vestiti (36%), pantaloni (31%) e gonne (29%).
La classifica riflette piuttosto fedelmente, seppur su scala ridotta, i comportamenti d’acquisto dei consumatori europei, che restituiscono il 54% dei vestiti, il 47% delle gonne e il 42% dei pantaloni. Tornando all’Italia, i prodotti meno restituiti sembrano essere pullover e cardigan, con poco oltre il 10% dei resi.
Nel segmento delle calzature, il podio è costituito dai modelli da donna: in prima posizione ci sono i sabot con il 38%, seguiti dalle ballerine (31%) e delle scarpe con plateau e tacco alto (24%). Meno restituite, invece, le sneaker, che si attestano intorno al 10 per cento. Guardando infine agli accessori, secondo Yocabè gli italiani restituiscono principalmente occhiali (19%), cinture (15%) e portafogli (10 per cento).
Quello dei resi si conferma un tema caldo nella giungla degli acquisti online, sia dal punto di vista del consumatore, attratto dalla possibilità di restituire gratuitamente quanto acquistato, sia dal punto di vista delle aziende coinvolte, preoccupate invece dalla questione dei costi e più in generale della sostenibilità, economica innanzitutto ma anche ambientale, di un intero modello di business.
Se, quindi, da un lato la carta dei resi gratis sembra essere la chiave per la fidelizzazione dei clienti per le piattaforme di shopping online, dall’altra essa rappresenta una sfida onerosa per le aziende. Sono in aumento, infatti, i player che hanno iniziato a muovere i primi passi indietro sul campo dei resi gratis, su tutte Zara, che ha cominciato ad addebitare una piccola commissione (meno di 2 sterline al momento) alle restituzioni dal Regno Unito di prodotti acquistati online attraverso i punti di consegna gestiti da terze parti.
Ma quanto costa alle aziende garantire un reso gratuito? Secondo l’indagine di Yocobè, per un’azienda italiana ogni reso che viaggi all’interno del Paese costa 13 euro, cifra destinata a raddoppiare se la merce che deve rientrare parte dalla Germania (23 euro a collo reso) e quasi a triplicare se a richiedere il reso è un acquirente svizzero (30 euro a pacco).
Un impatto sia economico sia ambientale: si pensi al packaging, al trasporto e all’eventualità che un prodotto reso venga distrutto. Talvolta il costo del reinserimento nella catena di vendita è superiore al guadagno generato dal prodotto stesso, rendendo antieconomico per le aziende lo strumento del reso, ancora però così appetibile per i consumatori.
Necessario quindi l’impegno per limitare l’incidenza dei resi sulle vendite, agendo prima che il prodotto arrivi al consumatore: “Una presentazione efficace, immagini precise e accattivanti, strumenti di comparazione delle taglie: tecnologia e contenuti hanno un ruolo cruciale nel migliorare l’esperienza d’acquisto e nel ridurre le percentuali di reso, tanto più quando si è presenti su più canali, come i marketplace, ciascuno con le proprie specificità”, spiega Perrone, CEO di Yocabè, a margine dell’indagine.
Intanto, però, resta cruciale l’ottimizzazione degli stessi, prosegue il manager: “La governance della ‘reverse logistics’, con l’ottimizzazione di tempi e costi di gestione dei resi e con la semplificazione delle procedure, aumenta la propensione all’acquisto. Il 70% dei consumatori online ha dichiarato infatti che le proprie scelte di acquisto sono strettamente legate alla facilità dei resi, mentre riduce i tempi di rimessa in vendita degli articoli”.
E poi il ruolo della ‘business intelligence’, che prevede la raccolta dei dati relativi a vendite, logistica e resi e una la corretta modellazione di tempi e costi di gestione per ottimizzare le vendite, fino alla a previsione di destinazioni alternative per i resi. Ancora, potenziamento del customer service, con l’obiettivo di intercettare a monte le problematiche che rischiano di condurre il cliente al reso.