Nel 2021 gli investimenti in ‘materiali del futuro’ hanno toccato i 980 milioni di dollari. La moda sperimenta con la pelle di origine vegetale. Ci si chiede se le produzioni italiane possano dire addio a cuoio e sintentico.
Si chiamano materiali next-gen e, dal 2015, hanno attirato investimenti globali per 2,3 miliardi di dollari (2,1 miliardi di euro). A rendere noto questo valore è l’organizzazione no profit Material Innovation Initiative, che nella definizione di materiali next-gen include pelle vegana o di origine vegetale e tutte le alternative non plastiche a poliestere e viscosa. Nel 2021 sono stati investiti circa 980 milioni di dollari nello sviluppo di ‘fibre del futuro’, il doppio di quanto raccolto nel 2020, e si prevede che entro il 2026 questo mercato possa raggiungere un fatturato di almeno 2,2 miliardi di dollari.
All’industria del cuoio e della pelle vengono imputati l’inquinamento chimico, la deforestazione per l’uso del suolo destinato al pascolo, la perdita di biodiversità nonché le emissioni di gas serra. D’altro canto, il settore sostiene invece la propria funzione di trasformazione e circolarità per l’utilizzo di un prodotto di scarto dell’industria alimentare. In un confronto con le produzioni tradizionali è lecito chiedersi se i materiali next-gen possano rubare quote di mercato all’industria conciaria italiana. “Vero è – ha commentato Fulvia Bacchi, direttore generale dell’Unione Nazionale Industria Conciaria (Unic) – che certi brand sperimentano nuovi materiali, ma si tratta appunto di sperimentazioni. Per cui non vedo all’orizzonte grossi rischi per il materiale ‘pelle’. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla ‘nascita’ di una gran varietà di nuovi materiali, prodotti in particolare da biomasse vegetali, spesso con una prevalenza di componenti sintetiche. L’attuale dinamica concorrenziale nei confronti della pelle, che si avvale spesso di una terminologia fuorviante, che utilizza impropriamente la parola ‘pelle’, si basa sull’assoluta mancanza di trasparenza sulle caratteristiche tecniche peculiari e di argomentazioni scientificamente supportate”. Unic ha ricordato come l’impegno per ridurre l’impronta complessiva della produzione conciaria sia una sfida affrontata non solo dalle singole realtà aziendali, ma sinergicamente da tutto il sistema produttivo. In questo contesto, le simbiosi industriali sviluppatesi negli anni sono fondamentali, soprattutto per il recupero e la valorizzazione degli scarti e il trattamento dei reflui. “La pelle è utilizzata in diversi segmenti di mercato ed ha caratteristiche uniche e, tra queste, cito la naturalità e la durabilità – ha concluso Bacchi -. Sono convinta che il mondo fashion degli accessori della fascia alta e medio alta del mercato non potrà mai rinunciare alla pelle”.
Quanto invece alle attività manifatturiere che producono e lavorano fibre tessili, le aziende italiane stanno già investendo nel bio-based (termine utilizzato per materiali o prodotti che siano interamente o parzialmente derivati da biomassa), mentre, per l’approvvigionamento di fibre naturali si cerca di dipendere sempre meno dai Paesi Extra-Ue. “Il tessile – ha spiegato Mauro Sampellegrini, responsabile ricerca e innovazione di Sistema Moda Italia – distingue tra fibre bio-based, quindi prodotte a partire da biomasse come scarti agricoli o agroalimentari, e fibre di base organica, naturalmente biodegradabili. In questi due comparti è già insito il discorso di minor ricorso alle sostanze chimiche e l’abbattimento dell’impatto ambientale. Ricordiamo però che i materiali sintetici sono una produzione fondamentale per il tessuto produttivo nazionale ed in continuo aumento, oltre a rappresentare, in ambito tessile, oltre il 50% di tessuti ad uso abbigliamento. Il mercato dei poliammidi e delle fibre sintetiche ha dunque un ruolo trainante per l’Italia, ma, per una maggiore sostenibilità, va potenziato in termini di eco-design, quindi di durabilità e riutilizzo del prodotto a fine vita, non necessariamente textile-to-textile”. Quello che serve sono grossi investimenti in fase di scaling-up e per il reshoring. “La congiuntura globale – ha concluso Sampellegrini – sta già portando all’aumento dei costi dei materiali tradizionali e impone di essere sempre meno dipendenti da produzioni oversea. Il reshoring delle materie prime è necessario e proprio in questi mesi è diventato un asset per la Commissione Europea in ambito tessile. Le aziende cercano anche fibre da agricoltura europea e produzione europea. Aumenta inoltre l’importanza delle certificazioni sulla sostenibilità etica e ambientale”.