Il governo del Bangladesh si è arreso ai 4 milioni e mezzo di lavoratori del settore tessile. È stato infatti concesso un adeguamento salariale per la categoria dopo mesi di manifestazioni di protesta contro l’ultimo aumento del salario minimo del settore, entrato in vigore il primo dicembre, che aveva fissato il salario minimo a 8mila takas (circa 84 euro), il 51% in più di quanto precedentemente stabilito ma non abbastanza rispetto alle esigenze della categoria che attendeva un salario di 16mila takas (circa 168 euro).
L’accordo sottoscritto da aziende e sindacati, annunciato domenica scorsa, propone aumenti salariali secondo la categoria di ciascun lavoratore: per chi ha maggiore anzianità e un più alto livello, il salario minimo è salito a 18.257 takas (circa 190 euro), per i nuovi assunti di livello più basso a 8mila (84 euro).
L’annuncio è arrivato dopo proteste e manifestazioni a intermittenza, sospese durante la conflittuale campagna elettorale e riprese con particolare intensità il 6 gennaio, a urne chiuse. Da allora, ci sono stati 8 giorni consecutivi di scioperi e forti azioni dimostrative represse dalla polizia, nella capitale così come a nord di Dacca, nelle cittadine adiacenti che formano una sorta di cintura industriale del tessile.
Si tratta di un settore cruciale per l’economia del Paese, il cui prodotto interno lordo nel 2018 è cresciuto al 7,8% annuo anche grazie ai lavoratori del tessile, il cui lavoro vale 26 miliardi di euro ogni anno e l’80% del commercio estero del Bangladesh.
A distanza di quasi 6 anni dal crollo del Rana Plaza che ha causato più di 1.110 vittime, le condizioni dei lavoratori del tessile rimangono comunque molto dure in Bangladesh. Si segnalano, infatti, già da lunedì, al rientro nelle fabbriche dei lavoratori, i primi licenziamenti ingiustificati da parte dei proprietari delle fabbriche, che nei giorni scorsi non hanno esitato a ricorrere alle minacce, sia fisiche sia verbali.