Tutto è cominciato con una nota a piè di pagina nel bilancio annuale di Burberry. Poi l’annuncio di Richemont con il via di un programma di buyback dell’inventario in eccesso e un’inchiesta del Guardian, che ha confermato come la gestione dell’invenduto, anche da parte delle aziende del lusso, si concretizzi spesso nella distruzione. Perché sbarazzarsi di prodotti integri? Per non farli finire sui circuiti del parallelo e per non perdere esclusività. Il ridotto avanzo di magazzino è ‘storicamente’ una delle carte che l’alto di gamma gioca per distinguersi dalle insegne del fast fashion, eppure l’attualità degli ultimi mesi non conosce posizionamento e solleva interrogativi sulla gestione degli inventari, sui perché della distruzione, sulle sue alternative e sul ruolo (preventivo) della tecnologia. Quest’ultima, infatti, potrebbe guidare il superamento, che l’attualità inquadra come necessario, del concetto di supply chain, la tradizionale catena della fornitura, a favore dello sviluppo di una demand chain, letteralmente una ‘catena della domanda’, dove sono la raccolta e l’elaborazione di dati a stimare con maggiore esattezza la tipologia e la quantità di merce vendibile. In questa nuova modalità di interazione tra azienda e mercati, il cliente diventa il driver fondamentale dell’innovazione in termini di ideazione, presentazione e distribuzione dei prodotti.
I CASI Di BURBERRY E RICHEMONT
“Il costo dei prodotti finiti fisicamente distrutti nell’anno – spiega il bilancio di Burberry relativo ai 12 mesi al 31 marzo 2018 – è stato di 28,6 milioni di sterline (32,7 milioni di euro), inclusi 10,4 milioni di sterline per prodotti dell’inventario beauty”. I dati relativi ai prodotti distrutti, in aumento negli ultimi due anni, sono stati una delle sfide di Marco Gobbetti nel suo primo anno da amministratore delegato della maison inglese. E la risposta del manager italiano si è tradotta nell’impegno pubblico, da parte di Burberry, a non distruggere più i prodotti invenduti. A rassicurare il mercato è arrivata anche la risposta di John Peace, presidente uscente della griffe di Londra, che ha dichiarato come le pratiche di smaltimento non siano mai state “affrontate alla leggera” e che la pelle Burberry, dal 2017, viene donata a Elvis & Kresse, una società che ricicla i cast-off in nuovi prodotti. Negli ultimi due anni, gli “shock di mercato” hanno fatto salire anche le scorte di orologi nella rete di concessionari di Richemont. Secondo un’inchiesta del Guardian, dal 2016, la holding di Ginevra avrebbe distrutto orologi per circa 500 milioni di euro, determinata a evitarne la svalutazione e, soprattutto, l’approdo sul mercato grigio. Gli orologi verrebbero “smantellati e riciclati”, con il recupero di movimenti e materiali di valore.
FAST FASHION E SPORTSWEAR
Il problema della gestione dell’invenduto ha dunque rivelato alcuni scheletri nell’armadio del lusso, per il quale si pongono gli stessi interrogativi e imperativi di sostenibilità che riguardano la moda low cost. Qui, ad attirare il fuoco mediatico, è stata di recente H&M. Nel suo inventario al 28 febbraio 2018 il colosso svedese ha accumulato 3,4 miliardi di euro di indumenti in giacenza (+7% rispetto alla stessa data del 2017) ed è finita sotto tiro per l’accusa di aver bruciato, negli scorsi anni, circa 60 tonnellate di abiti non venduti e ancora utilizzabili. “L’impegno in sostenibilità è sempre stato un elemento fondamentale dell’offerta H&M – ha precisato gruppo -. È molto raro per H&M destinare i capi all’incenerimento, questa soluzione viene adottata solamente quando non soddisfano i nostri standard di sicurezza”. Non va meglio nel segmento dello sportswear, dove Under Armour, nei risultati del secondo trimestre d’esercizio, resi noti lo scorso 26 luglio, registrava livelli di giacenza in aumento dell’11% a 1,3 miliardi di dollari (1,12 miliardi di euro), a fronte di ricavi per 1,2 miliardi (+8 per cento). L’invenduto del gruppo di Baltimora è monitorato con attenzione da analisti e investitori, consapevoli del fatto che politiche di sconto aggressive andrebbero a impattare sulle strategie di segmentazione dei canali di vendita di Under Armour.
I PROBLEMI ALLA BASE
I casi sopracitati inquadrano un terremoto alimentato da più scosse: problemi di natura legale, problemi di natura strategica e malfunzionamenti che allontanano le aziende ‘dall’obiettivo sostenibilità’. Sul fronte legale, il mercato borderline del parallelo, che spesso nasce proprio dalla necessità dei dettaglianti di liberarsi da grandi quantità di prodotti invenduti, mette a rischio l’esclusività delle collezioni e le politiche di prezzo delle aziende che quindi fanno il possibile, arrivando a distruggere i prodotti, per non approdarvi. A livello strategico, gli stock invenduti immobilizzano capitali che non possono essere investiti, ad esempio, in nuove apparecchiature o in nuovi prototipi. D’altro canto, format come il see now-buy now o iniziative come quelle di Moncler, Tod’s e Burberry, con prodotti nuovi che arrivano in boutique ogni mese, richiedono alle griffe notevoli sforzi di investimento, nonché una buona capacità di previsione dei trend. L’invenduto riflette, in molti casi, anche uno scarso controllo sulla produzione interna e il moltiplicarsi di transazioni intermedie che non favoriscono tracciabilità e trasparenza. Quanto all’impatto ambientale, non è più tabù che la moda sia, dopo quella del petrolio, l’industria più inquinante al mondo, con elevati consumi energetici e di sostanze chimiche, e un ritardo nello sviluppo di tecnologie che consentano di riciclare il 100% delle fibre naturali e sintetiche.
Le RISPOSTE DELLA TECNOLOGIA
L’insieme di questi fattori porta il sistema a ridisegnarsi. Chiamata in causa, la tecnologia scommette sulla raccolta e lo studio dei big data e dei processi transazionali per convertire la supply chain in una demand chain, in equilibrio tra soddisfazione del cliente e ottimizzazione dei costi operativi. L’intelligenza artificiale, l’insieme delle tecnologie e delle metodologie di analisi di dati massivi, la visual recognition e il machine learning sono solo alcune delle innovazioni candidate ad avere il maggiore impatto sull’industria della moda, poiché agevolano la previsione e la pianificazione della domanda, spostando il controllo del mercato dal prodotto al consumatore finale. L’innovazione dell’offerta e l’innovazione di processo nella supply chain sono, tradizionalmente, due ambiti separati. Oggi, però, l’orientamento al cliente richiede l’integrazione di questi due aspetti e ci si arriva tramite la raccolta e l’interpretazione, con algoritmi statistici, di grandi quantità di dati. Questi ultimi arrivano dall’online, dove applicazioni di intelligenza artificiale come chatbot o come la visual recognition sono già attive (si pensi all’assistente digitale Alexa e al device Echo Look di Amazon), ma anche dal retail fisico, che è fonte di dati con touchpoint interattivi e con gli strumenti che monitorano gli ingressi e le interazioni in negozio, utili alla rilevazione di trend demografici e d’acquisto. Sempre maggiore anche il ricorso alla Radio-Frequency Identification che consente il reperimento di informazioni riguardanti un oggetto tramite l’uso di un’etichetta elettronica e di un reader, che ne legge le specifiche. I dati che migliorano la customer experience possono, a monte, rendere più efficaci i processi aziendali. Il riconoscimento univoco Rfid, infatti, è anche alla base della logistica e della gestione degli asset, con inventari e sistemi di archiviazione tracciabili in modo efficace.
Il LUSSO ADOTTA LA BLOCKCHAIN
Va in questa direzione la stessa blockchain, che, in sintesi, inquadra la condivisione di risorse informatiche per rendere disponibile a una comunità di utenti un database virtuale. Tra i primi a scommettervi, i player della gioielleria che, nella blockchain, trovano uno strumento per tracciare la provenienza di metalli e pietre, e garantire al consumatore un prodotto “etico”. Tra le aziende coinvolte ci sono il retailer Usa Helzberg Diamonds, il provider di certificazioni indipendenti Underwriters Labs, il fornitore di metalli preziosi LeachGarner e il produttore di gioielli Richline Group, che si sono affidati a Ibm. Quest’ultima metterà a disposizione le sue tecnologie per lo sviluppo della TrustChain Initiative, il cui scopo è rendere più semplice, per i consumatori, risalire alla fonte dei metalli preziosi alla base dei gioielli che indossano, ripercorrendo i vari passaggi della supply chain. Nella moda, le soluzioni che si basano sulla blockchain tutelano la proprietà intellettuale dei disegni, arrivando a tracciare l’intero processo creativo.
di Giulia Sciola