Per i distretti del made in Italy sembra essere scattata una nuova fase. In passato, ci sono stati momenti differenti del loro sviluppo, dal boom degli anni Ottanta al periodo forse più difficile dell’utopia delocalizzatrice di inizio millennio. Adesso, appunto, sembrano vivere una nuova fase, aurea, divenendo protagonisti come non mai. L’esempio più chiaro del fenomeno è il distretto della pelletteria toscana. Si è già scritto più volte dell’impatto generato da Gucci che ha avviato negli ultimi due anni una politica di richiamo in house dei laboratori della zona, finendo poi per lanciare un proprio maxi polo per pelli e calzature. L’effetto è stato quello di spostare visibilmente l’equilibrio tra domanda e offerta di manodopera specializzata. Al punto, non solo, di spingere in alto i costi, ma di prospettare il rischio, per il resto del mercato, di restare spiazzati, cioè di non trovare laboratori in grado di assolvere alle richieste di produzione. Ecco che è scattata la recente corsa all’acquisto di aziende del distretto, su cui creare poli direttamente controllati dalle griffe. Lo hanno ormai fatto tutti i colossi del lusso: Kering, Lvmh, Burberry e, ultimo annuncio, Richemont. Si tratta di un processo inedito che trasforma la proprietà e, dunque, l’identità del distretto, sino a ora basata su una ramificazione di imprenditori locali. Un tale fenomeno non sembra caratterizzare solo Firenze. Il distretto veneto dell’occhialeria ha già registrato la costituzione di poli in house da parte di Kering e Lvmh. Mentre le avvisaglie di una replica si registrano per il distretto di Valenza. Gli effetti scatenanti ci sono: la grande manifattura di Bulgari, inaugurata nel 2017 e realizzata per spingere il marchio del gruppo Lvmh alla leadership mondiale; il recente progetto di recupero dell’ex Palafiere che il gruppo Damiani punta a trasformare in maxi polo produttivo ed espositivo. Queste iniziative stanno già cambiando le dinamiche del distretto, al punto che altri player hanno iniziato a ragionare su come ripararsi dal rischio spiazzamento, arrivando a progettare aziende proprie attive nella produzione conto-terzi. Questa effervescenza rappresenta certamente un momento di riconoscimento della filiera made in Italy. Ed è presumibile che l’avvio, da parte dei colossi, di una corsa alle acquisizioni nei distretti chiave, si tradurrà in una ulteriore spinta alla crescita. Sarà però importante vigilare sugli effetti collaterali di un percorso che, per la prima volta, viene guidato dall’esterno dei distretti stessi. La ricchezza di queste storiche aree industriali italiane affonda in radici ramificate e diffuse nel territorio. Attenzione a mantenerle vive.
David Pambianco