10 miliardi, come obiettivo di fatturato, è già di per sé un numero storico. Lo ha annunciato Gucci, qualche settimana fa in occasione di un investor day in Toscana, ed è stato rilanciato da tutti i media del mondo. Vero è che l’azienda non ha indicato un orizzonte temporale entro cui arrivarci, ma la cifra a dieci zeri sembra davvero alla portata di Gucci nel giro di pochi esercizi, visto il passo di crescita annuale intorno al 40% registrato negli ultimi anni. Detto ciò, questo numero, oltre allo stupore, genera un terremoto sottostante, del quale, forse, non si è presa completa coscienza. Un terremoto in quella filiera italiana che, inizialmente poco considerata, è diventata negli ultimi anni il nostro passe-partout nel mondo del lusso. Si pensi a quella attorno a Firenze, dove Gucci non solo ha fatto shopping di laboratori artigiani, portandoli in house, ma, per conseguenza, ha creato uno squilibrio tra domanda e offerta di lavoro che ha spinto al rialzo i costi. Quelli della manodopera. E anche quelli delle pelli pregiate, con effetti sugli altri distretti italiani di accessori di lusso. Ma un terremoto anche più violento, e sotto gli occhi di tutti, ha investito l’intero fashion system mondiale. Il dirompente successo della griffe toscana, infatti, ha imposto un nuovo paradigma stilistico. Gucci è stato il primo a intuire che si poteva e si doveva portare alla ribalta del blasonato fashion system, ciò che fino ad allora era proprio dei brand di nicchia, della strada: proposte realizzate da creativi, meno noti nel sistema, che avevano il vantaggio e la necessità di partire dal fondo e da ciò che il mercato richiede. Il risultato è stato una riconoscibilità assoluta. Un’impronta creativa di rottura, in grado di arrivare dritta all’immaginario e alla oramai consistente capacità di spesa dei Millennials. Sono cambiati i desiderata delle fashion victims. E il terremoto si è propagato in numerose griffe del lusso e non ha risparmiato nessuno, abbattendo anche baluardi che parevano inattaccabili. Come Tomas Maier, da 17 anni al timone di Bottega Veneta o Christopher Bailey da 17 anni al timone di Burberry. Improvvisamente, dominatori del palcoscenico internazionale della moda si sono trovati nella condizione obbligata di lasciare la guida delle griffe di cui hanno contribuito largamente al successo degli ultimi lustri. Sicuramente altre teste cadranno, in questo contesto di rivoluzione continua che è la moda ai tempi del social.
David Pambianco