La forza del ‘made in’ si sta dimostrando più forte delle etichette e delle regolamentazioni internazionali. Il miraggio del riconoscimento formale del ‘made in Italy’ è stato inseguito invano nel corso degli ultimi quindici anni. E, adesso, questa etichetta sembra ottenere la più clamorosa rivincita sul campo, grazie ai progressi della tecnologia, al mondo iperconnesso del mercato e all’industria 4.0. La rivincita è stata bene espressa in un articolo di Marco Fortis sul Foglio alla fine di gennaio, nel quale l’economista ha analizzato i dati Eurostat sull’export dei diversi Paesi europei. Ebbene, l’Italia si distingue perché, a trainare le esportazioni, è direttamente il comparto industriale, con quote tra l’80 e il 90% per i settori come moda, tessile e design. Viceversa, in altri Paesi, l’export è trainato in quote crescenti (se non maggioritarie come in Germania) da ‘commercio e logistica’, ovvero da servizi a industrie in larga parte delocalizzate. Questa caratteristica ‘stanziale’ della filiera produttiva italiana è stata, probabilmente, anche il risultato di una dimensione media frazionata e ridotta, che ha di fatto frenato il trasloco in aree del mondo a minor costo di manodopera. Per questo è stata a lungo indicata come un fattore di debolezza. Viceversa, cambiando la chiave di lettura, nel tempo la piccola e media impresa diffusa dei distretti è stata reinterpretata come un fattore di forza. Non a caso, Kering e i cugini di Lvmh, da anni, investono proprio sulla capacità produttiva territoriale italiana, perché elemento differenziante rispetto alle sterminate capacità produttive del Far East. Dove, però, non ci sono heritage, tradizione e, soprattutto, know how. E oggi, dice ancora Fortis, grazie a un mondo a comunicazione e interazione globali, si procede verso una conoscenza completa dell’intero ciclo di vita di un prodotto. Perciò, è impensabile che un ricco cinese compri qualcosa con stile italiano che non sia fatto in Italia. La svolta tecnologica che sta cambiando il mercato e i consumatori, è riuscita dove non sono riusciti la politica, le strategie associative o le lobby a Bruxelles. è riuscita, cioè, a riconoscere un valore pieno all’etichetta di provenienza ‘made in’. L’industria del ‘made in Italy’ pare aver reagito a questa opportunità, con un risveglio negli investimenti che, ha spiegato in questi giorni il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, è a “livelli cinesi. Se la moda italiana saprà sfruttare a pieno le opportunità 4.0, ovvero saprà generare quelle economie di scala tecnologiche che fino a oggi non ha saputo trovare sul piano fisico, ha di fronte la conquista di un mercato quasi senza limiti.
David Pambianco