Un paio d’anni fa i principali gruppi editoriali italiani si sono lanciati con entusiasmo sul commercio online, provando a risollevare anche così i propri introiti pubblicitari.Evidentemente, però, lo scalino da fare non era così semplice come si era pensato in un primo momento. E nonostante le ricerche evidenzino come, almeno per i marchi del lusso, i ricavi dal web incidano ormai il 7-8% su quelli complessivi, la stessa fortuna non la si può riscontrare nel mondo dell’editoria. I primi tentativi di e-commerce editoriali nel nostro Paese possono dirsi, a oggi, falliti, tanto che le case editrici si stanno muovendo su strade più articolate. Lo spunto per la creazione dell’e-commerce promosso da una testata o da un gruppo di testate è arrivato dall’estero un paio di anni fa. Era il 2015 quando Hearst lanciò negli Stati Uniti BestProducts.com, una piattaforma attiva tutt’oggi con l’obiettivo di vendere prodotti delle più svariate categorie (food, bellezza, moda e articoli per la casa), selezionati dal team editoriale di Elle, Marie Claire e Cosmopolitan e dotati di un link a quegli stessi prodotti su siti generalisti come Amazon. Il modello di business? I grandi portali riconoscono alle case editrici una percentuale delle vendite, mai ben quantificata dalle parti in gioco. Questa pratica, comunemente chiamata ‘programma di affiliazione’, consiste in una partnership tutto sommato agile e non dispendiosa, che molti altri editori hanno scelto nel tempo. In Italia, ad esempio, proprio di recente Hearst ha iniziato, in vista delle festività natalizie, a testare una collaborazione con Amazon attraverso l’inserimento di alcuni link al portale negli articoli delle proprie testate online. Dimostrando, per ora, di non volere fare il passo più lungo della gamba. Passo che invece è stato fatto da chi, nel tempo, ha scelto coraggiosamente di andare oltre al programma di affiliazione lanciando un e-commerce ‘in house’ o in partnership con esperti del settore.
TRA DIETROFRONT E TENTATIVI
Il caso simbolo è stato quello di Style.com, storico portale di Condé Nast America convertito in e-commerce di lusso nel settembre del 2016, quando la casa editrice investì una cifra che i ben informati stimano per 100 milioni di dollari per quella che definì una “piattaforma altamente tecnologica che propone grandi brand attraverso contenuti moda in grado di intrattenere e ispirare i clienti negli acquisti”. Eppure, la grande avventura è durata appena nove mesi: il sito ha chiuso lo scorso giugno ed è stato assorbito da Farfetch, con cui poi Condé Nast ha stretto un patto che prevede una forte sinergia tra articoli e prodotti. Ma il gruppo americano non è stato l’unico a dover tornare sui propri passi. In Italia, altre case editrici hanno ordinato la ritirata dai propri progetti di vendite online. Mondadori, per esempio, già nel 2014 aveva acquistato addirittura un e-shop, London-Boutiques.com, nell’ottica di lanciare la piattaforma globale di e-commerce del settimanale Grazia, graziashop.com. Il marketplace, che non reindirizzava a siti partner ma agiva ‘da sé’ e che era sponsorizzato sui siti di tutte le edizioni internazionali della testata, non risulta più raggiungibile. Stessa sorte per il progetto ‘moda’ del gruppo Rcs: a fine 2015 aveva creato il proprio e-commerce sul sito di Io Donna, storico settimanale femminile del Corriere della Sera, in collaborazione con Zalando. L’incursione nelle vendite online, però, non è durata molto: il sito non risulta più attivo. Maggiore successo, invece, per altri progetti del gruppo, come quello legato allo sport (Gazzetta Store). E, adesso, la casa editrice mette gli occhi sui viaggi e si affida anche all’affiliazione (vedi intervista a pag. 24). Il grande sogno di un’e-commerce in proprio, insomma, sembra svanito. La fiducia sembra da un lato riposta nei click ad altri portali, anche se non è chiaro quanto questi possano realmente impattare sui bilanci delle case editrici e, dall’altro, in commistioni tra editoria e pubblicità che esulino dalle vendite dirette, per esempio con l’utilizzo di influencer e, addirittura, tramite la loro formazione. Che i profili da migliaia di follower si stiano dimostrando più redditizi rispetto a piattaforme così difficili da gestire?
di Caterina Zanzi