Il presidente di Eataly, classe 1965, è alla guida di una catena che ha cambiato il food retail. Una ‘grande avventura’ che passa dall’apertura del capitale. Anche se, dopo l’Ipo, “non dovrà cambiare niente”.
Eataly è “poco più di una startup”, ma con dei progetti da gigante. In vista della quotazione in Borsa, che potrebbe arrivare tra il 2018 e il 2019, il presidente esecutivo di Eataly Andrea Guerra, intervistato da Enrico Mentana al 22° Summit Pambianco Deutsche Bank, ha parlato dei progetti di sviluppo della catena italiana dell’alimentare. Che riguardano soprattutto l’estero, ora che l’Italia è presidiata. E che non possono prescindere dalla responsabilità, che è “la vera rivoluzione”. Non solo verso il mercato, ma anche nei confronti di dipendenti e consumatori.
Dopo Luxottica è arrivato a Palazzo Chigi: come sono stati quei 12 mesi?
Palazzo Chigi ho fatto un’esperienza di vita, più che manageriale. Uscivo da 10 anni impegnativi, e sentivo di non avere immediatamente l’energia di lavorare per un’altra azienda. Ho fatto molto, visto tante cose diverse e avuto tante idee. Ma non mi sono divertito. Dopo un anno sono tornato a fare il mio mestiere. Credo, però, che Renzi abbia provato a cambiare il Paese: gli imprenditori possono essere soddisfatti dei cambiamenti portati.
Con Farinetti vi siete incontrati come supporter di Renzi?
No, l’ho conosciuto nella mia vita precedente a Luxottica, quando lavoravo nel settore degli elettrodomestici (come AD di Indesit, ndr) e vendevo lavatrici a Farinetti (all’epoca proprietario di UniEuro, ndr).
Cosa c’è di quell’esperienza nell’idea fondante di Eataly?
All’epoca chi entrava in un negozio di elettrodomestici andava incontro alla noia più totale: era tutto uguale. Farinetti ha capito l’importanza di emozionare il cliente, di fargli vivere un’esperienza. E così, 10 anni fa, ha trasformato una delle industrie più antiche del mondo, quella dell’alimentare: da allora, tutto il food retail si è rifatto al modello di Eataly. Che non è solo un negozio, ma un luogo particolare in cui compri, mangi, impari.
Avete inaugurato da poco Fico Eataly World, il parco tematico dell’agroalimentare a Bologna. Pensa che interagirà con l’immagine di Eataly in vista della quotazione?
Con Fico siamo stati in grado di riunire 100 investitori privati che hanno messo sul piatto oltre 100 milioni di euro e hanno rigenerato un luogo che prima era abbandonato, il mercato generale di Bologna. Questo progetto è stato portato a termine in 4 anni: le cose in Italia succedono, e anche in tempi brevi, se si hanno determinazione e coraggio.
Come si racconta e quantifica la ‘grande avventura’ agli investitori?
L’anno scorso abbiamo raggiunto i 380 milioni, quest’anno arriviamo appena sotto ai 500: Eataly è poco più di una startup, ma ci stiamo aprendo al mondo. L’anno prossimo, gli Stati Uniti avranno un fatturato superiore a quello del nostro Paese, giusto per dare un’idea: se penso alla nostra crescita, il 90% è fuori dall’Italia. Ora abbiamo intrapreso questo percorso per cui nei prossimi 12-18-24 mesi apriremo il capitale, ma il punto fondamentale è che non deve cambiare niente: la storia della Borsa che ti obbliga ai trimestri positivi è una stupidaggine. Il vero tema è essere credibili nel lungo periodo: gli impegni e le responsabilità ce li prendiamo tutti i giorni coi consumatori, a prescindere da una quotazione.
Però qualcosa andrà detto a chi vuole investire…
Ci sono 170 città capitali nel mondo? Un negozio per capitale possiamo averlo. Vogliono i dati? L’anno prossimo puntiamo ai 600 milioni di ricavi e credo possiamo arrivare sopra al miliardo e mezzo.
Avete in programma acquisizioni?
Due o tre mosse nei mondi giusti, come quelli dei dolci e delle conserve, sono possibili.
Il perimetro di Eataly è questo o si può allargare?
Assolutamente no, ‘eat’ è il perimetro. Il legame con l’alimentare non diventerà mai qualcos’altro: noi facciamo questo e su questo ci vogliamo concentrare.
di Caterina Zanzi