Il fondatore del marchio di San Mauro Pascoli si è ispirato alla musica più che alla moda. E oggi preferisce il riscontro sui social al giudizio dei buyer. Si definisce un “solitario”, a cui il gioco di squadra crea “disagio”.
Le nuove sfide legate al digitale non lo spaventano, ma anzi lo esaltano. Parola di Giuseppe Zanotti, fondatore dell’omonimo marchio che, intervistato al Summit Pambianco-Deutsche Bank da Enrico Mentana, spiega la propria strategia, fondata sulle collaborazioni con le star e sull’utilizzo dei social.
Come si diventa Giuseppe Zanotti?
Sono nato in campagna, poi a 20 anni sono scappato da San Mauro Pascoli perché mi stava stretta. A quei tempi sognavo di fare il dj: la musica mi piaceva molto, ma non ci sono riuscito. I miei volevano che aprissi un bar o una gelateria. Per la gente di mare è normale preparare il destino dei figli con investimenti di famiglia. Dopo il fallimento nella musica ho iniziato a fare qualche consulenza nelle calzature. Il mio esperimento nasce negli anni 80: le scarpe di quel periodo erano ingombranti e poco sexy. Io ho iniziato a pensare al piede come a un collo a cui mettere un gioiello, volevo valorizzare questa parte del corpo, scoprirla. Prima raccontavo semplicemente cosa avrei fatto, poi ho iniziato a disegnare, anche se non sapevo da che parte cominciare. E a San Mauro alla fine ci sono ritornato: le nostre scarpe le produciamo tutte lì.
Quindi la si può considerare un autodidatta assoluto?
Sì, nel senso che non ho fatto studi applicati. Poi nel tempo quando mi interessava un argomento, naturalmente, l’ho studiato, ma fuori dai banchi di scuola.
Ha lavorato, tra le altre, con Beyoncé, Rihanna, Jennifer Lopez: quanto conta riuscire a entrare nelle grazie di volti noti in termini di pubblicità e reputazione?
Moltissimo, soprattutto oggi con il digitale. Ma anche ieri contava, perché l’associazione con una star riconoscibile è molto importante. Lavorando con le ragazze del pop e dell’hip hop, non soltanto americane, abbiamo avuto molta visibilità. Un esempio? Ultimamente abbiamo dato vita a una collaborazione con una popstar coreana, il cantante G-Dragon, per cui la gente impazzisce letteralmente. Ne è nata una scarpa da uomo che, ovviamente, ha avuto un grande successo.
Come sono strutturate le partnership?
Si chiamano capsule collection, e durano un paio di stagioni: per scelta non le facciamo durare per lunghi periodi. Buoni esempi in questo senso sono state le collezioni fatte insieme a Kanye West e Jennifer Lopez, che mi hanno portato anche a evolvere dal punto di vista stilistico. Giuseppe Zanotti nasce come scarpa elegante. Ora però ci sono anche le sneakers, sempre di lusso e ‘cariche’, ma ispirate al mondo street. Una volta ci si rifaceva alla moda e al teatro, all’arte. Oggi c’è la musica.
Con collaborazioni simili si rinuncia alla propria creatività?
Ovviamente, entrando in campo un’altra parte, ci sono più cose da studiare, c’è una sorta di copione da seguire e le star hanno ciascuna le proprie esigenze. Ma alla fine il copione lo studio comunque a modo mio, non scendo mai a compromessi. Se credo che qualcosa sia sbagliato, non ho problemi a dirlo, e spesso gli artisti sono in grado di accettarlo.
Dai suoi racconti dà l’idea di essere un solitario, uno a cui piace fare in prima persona senza giocare di squadra… è vero?
Diciamo che in alcuni casi mi trovo bene con colleghi e persone più complesse e articolate. Il gioco di squadra sì, mi mette un po’ a disagio perché spesso si finisce per avere punti di vista molto diversi. Ho dei limiti sociali, mi rendo conto di essere un po’ solitario. Ma appartengo alla schiera di persone per cui la manifattura è una cosa, la creazione un’altra: non è facile trovare un network di imprenditori che la pensino tutti come te. Da dove arriva l’ispirazione per le sue scarpe? Instagram mi aiuta moltissimo, faccio una vera e propria ricerca su questo social network. Prima andavamo a vedere i musei, adesso accendiamo il cellulare. Grazie all’utilizzo dei social media riusciamo a saltare la filiera e anche i buyer, e ad avere un feedback diretto da parte dei consumatori.
di Caterina Zanzi