La svolta è iniziata in Cina, ma ora diventa strutturale. Nel lusso non mancano esempi virtuosi. Per il fast fashion, il ridimensionamento del network è già realtà.
Negli ultimi anni, il retail è stato il vero Eldorado della moda. Fino ai primi anni di questo decennio, i brand hanno spinto l’acceleratore sui punti vendita, ramificando la propria presenza worldwide in modo estremamente capillare, con ritmi di aperture vicini anche agli 80 nuovi store all’anno per quanto riguarda le luxury griffe, alle diverse centinaia per quanti riguarda i big del low cost. Un’esposizione che, negli ultimi due anni, sembra aver raggiunto un punto di saturazione, registrando un’inversione nell’andamento dei margini a metro quadro del negozio. Parlare di ‘retail apocalypse’, termine utilizzato per la grande distribuzione americana, è certamente fuori luogo per il mondo della moda e del lusso. Ma il disastroso precipitare dei department store a stelle e strisce è la conseguenza di un cambiamento delle abitudini di consumo che non ha lasciato indenni anche i big player del lusso e del fast fashion. Lo dimostrano anche le politiche di mass closure avviate da tre big Usa: da Ralph Lauren, che con la chiusura della boutique Polo sulla Fifth Avenue ha annunciato un piano di forte revisione del proprio network, a Michael Kors, pronto ad abbassare la saracinesca a un centinaio di monomarca nel mondo, passando per Guess, in procinto di togliere fino a 60 negozi alla sua rete dopo le 62 chiusure degli ultimi due anni. bernstein certifica il primo calo Sullo scenario è arrivata la certificazione di Bernstein con il suo recente report ‘Store Wars’. Secondo le informazioni raccolte dal Proprietary Bernstein Store Count database, un archivio di proprietà della casa d’investimento, che include circa 7mila negozi facenti riferimento a 36 luxury brand, a luglio 2017, rispetto all’anno precedente, le chiusure hanno superato per la prima volta le aperture, certificando il primo saldo negativo per il retail del settore, con una performance particolarmente negativa per quanto riguarda i marchi soft luxury (-1,4%). Per quanto riguarda il format, a pagare di più sono stati soprattutto i department store, pari a un terzo del mercato globale, che hanno registrato un calo dell’1,3%, mentre i mall sono rimasti stabili. L’unico format, che rappresenta il 24% del settore, a mettere a segno una timida crescita è il monomarca (+1,2 per cento), grazie soprattutto a quei brand che hanno ancora buone potenzialità di espandere il proprio network.
CHI APRE, CHI CHIUDE
Sono solo due i marchi che Bernstein cita come esempio virtuosi, tra i pochissimi riusciti a registrare un saldo positivo tra aperture e chiusure. Moncler e Saint Laurent, secondo il report, hanno ancora diversi assi nella loro manica perché con una diffusione globale con un buon margine di espansione. A dirlo, sono i numeri dei loro store network, verificabili tra le pagine dei loro bilanci. Analizzando quelli degli ultimi tre esercizi, è evidente come sia Saint Laurent sia Moncler siano stati tra i pochi a mantenere un tasso di aperture costante. La maison in orbita al gruppo Kering, in linea con il successo di pubblico e critica registrato negli ultimi anni, ha registrato negli ultimi tre esercizi fiscali un tasso di nuove aperture in crescita sostanziale: 13 gli opening netti nel 2014, 14 nel 2015 e ben 23 nel 2016, per un totale di 159 vetrine a livello worldwide. Un numero destinato ad aumentare nel 2017, almeno stando alle aperture già realizzate nei primi nove mesi e quelle previste entro la fine dell’anno: a fine settembre erano attive 179 boutique, cui se ne aggiungeranno altre 7 nel quarto trimestre, per un totale di 27 nuovi monomarca. Per quanto riguarda, invece, il marchio guidato da Remo Ruffini, il numero di opening si è ridotto negli ultimi tre anni, pur mantenendo un tasso double digit. Le aperture del 2014 sono state 27, 39 nel 2015 e 17 nel 2016, portando la rete retail a quota 190 store nel mondo. A questi, nel 2017 si aggiungeranno 13 nuove vetrine, che porteranno lo store network di Moncler a quota 203 location. Numeri che non devono stupire, soprattutto se consideriamo i risultati messi a segno da questi due marchi nei primi nove mesi del 2017: ricavi a +15% per Moncler, +26,2% per Saint Laurent. A dare la percezione dell’ottimo momentum che i due brand stanno vivendo, i margini ebitda altissimi che riescono ancora a registrare (nel primo semestre 2017 per Saint Laurent è al 26,3%, per Moncler al 23,8%). Dall’altro lato, i marchi che attualmente risentono di un calo di popolarità sono anche quelli che stanno iniziando a ridurre il proprio store network. Il report di Bernstein indica tra i worst performer Burberry, tra i primi a registrare un saldo negativo tra aperture e chiusure. Dati alla mano, è immediato rendersene conto: la rete del gruppo britannico è passata dalle 214 vetrine worldwide del 2014 alle 209 del 2016. A essere ridimensionato è stato anche il network delle concessioni, che si sono ridotte dalle 213 del 2014 alle 200 nel 2016, esercizio fiscale particolarmente turbolento per l’azienda costretta a rivedere le proprie stime sui profitti di fronte al rallentamento di Hong Kong e Macao, e dei flussi turistici dei cinesi in Europa.
LA CINA NON È PIÙ COSÌ VICINA
La partita chiave, in positivo e in negativo, si gioca comunque in Cina, mecca del retail fashion and luxury fino a qualche anno fa, terreno di (qualche) débâcle oggi. Che dopo la grande invasione di boutique e flagship store i grandi gruppi stessero ripensando la propria strategia retail nel Paese, di fronte a risultati ampiamente sotto le stime, era nell’aria. A dare la percezione di come il vento stesse cambiando era stato Louis Vuitton nel 2015, iniziando un piano di chiusure per ridurre del 20% la propria presenza cinese. Il fenomeno, però riguarda tutti gli attori del sistema. Bernstein, nel suo report, certifica infatti come la Cina sia stato il mercato più impattato dalle chiusure, ben 62 allo scorso luglio rispetto all’anno precedente. Prima erano stati i prezzi cinesi troppo alti, con conseguente fuga verso i più convenienti negozi europei. Una volta azzerato il divario, il retail fashion e luxury si è trovato di fronte un nuovo ostacolo: la fortissima espansione dell’e-commerce nel Paese, guidata da due colossi come Alibaba e JD.com. In un’indagine realizzata da Bain & Company, il 50% dei consumatori wealthy cinesi ha dichiarato di aver incrementato gli acquisti attraverso le piattaforme web locali, in particolare gli abitanti delle città di seconda e terza fascia che non sono state prese d’assalto dai negozi della moda e del lusso.
NEMMENO IL FAST FASHION È IMMUNE
A rivedere i propri piani di espansione non sono solo i grandi del lusso, ma anche i colossi del fast fashion. Dopo la grande abbuffata, sia Inditex sia H&M hanno iniziato a scontare gli effetti negativi di una politica di espansione troppo aggressiva, arrivando a chiudere anche alcuni dei negozi di riferimento. A far molto discutere è stata la decisione di H&M di dismettere il flagship di San Babila a Milano, proprio quello che nel 2003 aveva dato inizio all’espansione del colosso svedese in Italia, e oggi pronto a ospitare il primo store italiano di Urban Outfitters. Analizzando gli ultimi tre bilanci dei due principali player del fast fashion, emerge sia un rallentamento delle aperture sia un aumento delle chiusure. Nel dettaglio H&M, pur con un network sempre in ampliamento, è passato dalle 47 chiusure del 2014 alle 70 del 2016. La crescita degli opening netti, inoltre, è decisamente rallentata negli anni: il dato è infatti passato dalle 379 aperture nette del 2014 alle 413 del 2015 e alle 427 del 2016, con una previsione di 430 nuove vetrine nel 2017. Per il solo marchio H&M, già il 2017 potrebbe registrare una retromarcia nelle aperture: sono stimati infatti tra i 350 e i 360 opening rispetto ai 352 del 2016 (contro i 349 del 2015 e i 325 del 2014). Per il competitor Inditex il calo di tagli del nastro è già una realtà certificata negli ultimi tre bilanci, con stime quasi sempre disattese alla prova dei fatti. Se nel 2013, infatti, erano previste 450-500 aperture lorde e 80-100 chiusure, il 2014 riferisce di 343 opening netti. Stesso discorso per il 2015, in cui ai 420-480 opening lordi e le 80-100 chiusure stimate l’anno prima sono corrisposti 330 tagli del nastro netti. E per il 2016: le aperture nette sono state 279, da una previsione di 400-460 opening e 100-120 chiusure dall’anno precedente. Il caso Zara è lampante: il numero di aperture nette è passato dalle 94 del 2014 alle 77 del 2015, fino alle 51 del 2016. I numeri della retromarcia sono destinati a crescere anche nel 2017. H&M ha dichiarato che le chiusure, tra cui quella di San Babila, rientrano nel piano di revisione della rete di negozi per privilegiare opening in spazi dagli affitti flessibili e convenienti, e in location dalla maggiore visibilità, per arrivare rapidamente a break even. Inditex ha dichiarato che nel 2017 le chisure saliranno a 150-200 (su 450-500 opening lordi), riguardando le location dalle metrature più piccole per privilegiare i maxi store. Come lo store milanese di via Torino di Bershka, chiuso dopo l’avvio del flagship di Corso Vittorio Emanuele.
di Alessia Lucchese