Trump e le sue barriere, Brexit e Cina. Il made in Italy si trova ad affrontare sfide su più tavoli diversi. Ma gli effetti potrebbero essere meno disastrosi del previsto.
L’anno 2017 si apre con incognite pesanti per il made in Italy. Che riguardano tutti i fronti industriali e commerciali, dall’America di Donald Trump al Regno Unito post Brexit fino all’enigma dall’altra parte del mondo, in Cina. Su fronte occidentale, mentre gli stilisti si dividono tra i fan e i detrattori della first lady Melania Trump, la moda si interroga su Donald. Pochi giorni dopo il suo insediamento, il 45esimo presidente degli Stati Uniti ha annunciato una serie di misure protezionistiche per risollevare l’industria nazionale a discapito delle importazioni dall’estero. Il responso? Secondo Prometeia, l’innalzamento delle barriere doganali annunciato da Mr. Trump potrebbe costare alla moda italiana qualcosa come 345 milioni di euro. Una cifra da capogiro, soprattutto considerato che gli Usa rappresentano il terzo mercato di riferimento per il tessile-moda tricolore con un valore complessivo di 1,2 miliardi di euro da gennaio a luglio 2016. A conti fatti le sanzioni potrebbero impattare per quasi un terzo delle vendite semestrali italiane Oltreoceano.
TANTO RUMORE PER NULLA
Ma c’è davvero questo rischio negli Stati Uniti? Secondo il presidente di Smi-Sistema moda Italia, Claudio Marenzi, l’affaire Trump rappresenta piuttosto un fuoco di paglia. “C’è molta preoccupazione in giro – ha ammesso il presidente dell’associazione confindustriale che riunisce il settore tessile-moda italiano – ma i dazi sono già altissimi e regolati dal Wto. Difficilmente potranno aumentarli in modo arbitrario”. Attualmente, secondo le ultime tabelle diffuse da Smi, le tariffe di ingresso negli States dei prodotti moda possono arrivare al 17%, a seconda della tipologia di merce e dei tessuti con cui è realizzata, e mediamente si aggirano sul 10 per cento. “Sono amareggiato – ha continuato Marenzi – per lo stop al Ttip, questo trattato ci avrebbe portato un 15% in più di export. Ora non lo avremo, ma credo che non peggioreremo neppure le nostre performances verso gli States. C’è un dato che lo conferma. Dal 1995 ad oggi si sono verificati due picchi positivi e altrettanti negativi. Bene, in nessuno di questi casi esiste un collegamento diretto con la politica dei dazi. Il calo che ha interessato il periodo che va dal 2000 al 2007, per esempio, è piuttosto collegato all’ascesa della Cina”. C’è poi da aggiungere la carenza di una filiera produttiva americana, soprattutto nella dimensione tessile, totalmente smantellata negli anni Settanta e che difficilmente potrà essere ricostruita nel breve termine. E non è un caso che il Governo continui a finanziare il piano di promozione del made di in Italy nel Paese. Nel 2016 l’esecutivo ha stanziato 48 milioni di euro, di cui 10,5 milioni destinati al comparto moda allargato, per iniziative che spaziano dalla partecipazione alle fiere, alle azioni con la distribuzione, alle campagne di comunicazione, alla formazione. Lo stanziamento 2017, invece, è pari a 40 milioni di euro, di cui 12 milioni destinati al fashion. Trump insomma sembra più un abbaglio che un fattore di rischio? A conti fatti sembra proprio di sì. La stessa Prometeia, nella sua analisi sui rischi per l’Italia della politica protezionistica di Trump ne sottolinea i limiti. “Difficilmente una politica commerciale stile anni Ottanta e pre-Wto – si legge nello studio – appare compatibile con l’attuale sistema di regole multilaterali di cui gli Stati Uniti stessi sono oggi garanti. È quindi più probabile che l’idea di una politica ‘muscolare’ da parte della nuova amministrazione passi attraverso iniziative per lo più interne (spesa pubblica, immigrazione e dollaro forte), il cui riflesso sugli scambi internazionali sarà per certi versi indiretto, peraltro non necessariamente sfavorevole agli esportatori italiani, almeno nel breve”. Secondo Prometeia, “un dollaro vicino alla parità con l’euro per tutto il 2017 varrebbe per l’Italia, a parità di altre condizioni, un aumento di circa il 2% in termini di maggior export nel mondo, cui però occorrerebbe sottrarre in termini di crescita un onere maggiore di circa il 5% nell’approvvigionamento in euro di materie prime e altre importazioni”.
INCUBO DA BREXIT
Gli States non sono l’unico incubo per il made in Italy. Il 2017 apre anche l’incognita Brexit. Nonostante il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea sia ormai dello scorso giugno, i contorni di questa manovra e i possibili effetti sono tutti in divenire. Prima di tutto perché il governo di Theresa May deve ancora avviare i negoziati formali per la Brexit attraverso la notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona all’Ue. L’iter è del tutto nuovo. La politica commerciale Uk sarà rinegoziata. Chiuso il libero scambio, Londra dovrà quasi meccanicamente alzare barriere tariffarie verso gli ex partner. Secondo una analisi di Prometeia sugli effetti della Brexit, “anche ipotizzando tariffe contenute, secondo gli odierni profili adottati dall’Ue (e quindi dal Regno Unito) verso paesi terzi, il dazio medio applicato alle imprese italiane dopo il Brexit potrebbe essere superiore al 5% del valore esportato.”. Per la moda il dazio medio per la moda potrebbe aggirarsi attorno al 10%, il livello più alto dopo l’agroalimentare. “Applicando le tariffe medie di comparto ai flussi effettivi del 2015 – spiega il testo – la moda arriverebbe a perdere oltre 200 milioni di euro (il 9% di quanto esportato)”. “Aggravi – si legge ancora – che andrebbero a sommarsi a quelli legati alla svalutazione della sterlina, fattore che agisce sulla competitività italiana sia sul mercato stesso (rispetto ai produttori nazionali)”.
CINA TRA RISCHIO E OPPORTUNITÀ
Usa e Uk non sono l’unico scoglio per il made in Italy nel 2017. Anche la Cina rappresenta un interrogativo non da poco per il fashion tricolore. Gli occhi del sistema moda italiano sono puntati sul riconoscimento da parte dell’Unione europea della Cina come economia di mercato (Mes). Con una proposta presentata lo scorso novembre, la Commissione Ue intende modificare la metodologia nel calcolo dei dazi anti-dumping considerando la difesa dei settori economici, a prescindere dall’origine nazionale dei prodotti concorrenti, e superando in questo modo la distinzione tra Paesi con status di economia di mercato e Paesi senza tale status. Per Marenzi di Smi, è proprio il Dragone il vero incubo 2017 per il settore tessile-moda. “Bisogna essere severi a livello comunitario nei confronti di Paesi emergenti – ha commentato – altrimenti ci troveremo di fronte ad una situazione squilibrata senza dazi e senza regole” Se, da una certa parte, la preoccupazione è quella di un arrivo in massa di merci a basso costo in Europa con il taglio delle misure anti-dumping, dall’altro però la Cina e in generale la Greater China continua a rappresentare il salvagente del made in Italy. Nel 2016, secondo i dati raccolti dall’Ufficio studi di Smi, Cina e Hong Kong hanno superato la Germania nella classifica dei principali bacini per il tessile italiano, centrando il primo posto. E secondo un recente report di Exane Bnp Paribas, quest’anno il Dragone dovrebbe tornare a “contribuire considerevolmente alla spesa globale nel settore lusso”. Anche il Governo si sta muovendo per sostenere le imprese italiane nell’ex Celeste impero, quadruplicando gli investimenti per la promozione delle esportazioni in generale dei prodotti italiani e portandoli fino a venti milioni di euro, il 10% del totale stanziato a livello globale.
di Milena Bello