È in Kering da oltre 10 anni. Ma, dall’inizio del 2015, è soprattutto l’uomo di Gucci. A lui François-Henri Pinault ha chiesto “senza il punto di domanda finale”, di rilanciare il marchio della doppia G. Con l’obiettivo di 6 miliardi di ricavi “da raggiungere presto”, grazie anche a “quel pazzo di Alessandro Michele”.
È un Marco Bizzarri raggiante quello che arriva sul palco di Palazzo Mezzanotte per l’intervista face to face con Enrico Mentana. E non potrebbe essere diversamente: Gucci, di cui è presidente e AD da due anni, sta vivendo un momento d’oro. Dopo un 2015 di rivoluzioni, il marchio ha chiuso i primi nove mesi dell’esercizio corrente con ricavi per 3 miliardi di euro (+8,5%) con un’accelerazione nell’ultimo trimestre del 17,8 per cento. Una performance superiore alle stime degli analisti che si aspettavano una crescita attorno al 10 per cento. La progressione high double digit fa del brand uno dei migliori nel comparto lusso e raccoglie i frutti della nuova visione, apportata da Bizzarri insieme al direttore creativo Alessandro Michele. Un incontro fortunato, su cui il manager non ha lesinato dettagli durante il proprio intervento dal titolo ‘Disruption e velocità, i fattori del successo di Gucci’.
Quali erano i problemi di Gucci quando è stato chiamato a guidarlo?
Era un bel problema da 1 miliardo di utili. A quel tempo, Gucci cresceva, ma cresceva pur sempre meno di altri marchi e continuava a perdere quote di mercato. Negli ultimi anni il posizionamento era stato troppo basato sulla sua storia, sull’heritage. C’era bisogno di una virata, di innovazioni, per far tornare Gucci a essere il marchio più desiderato del fashion system.
Che reazione ha avuto alla richiesta di François-Henri Pinault?
Non è stata esattamente una domanda (ride, ndr). Ricominciare da capo, prendere in mano un brand da 4 miliardi di fatturato e 11mila dipendenti non era esattamente il mio sogno: stavo bene dov’ero. Ma appena entrato in azienda mi sono innamorato: Gucci è il marchio che fino a ora mi somiglia di più.
Quali sono state le prime mosse?
Fare piazza pulita del passato, prendere dei rischi, cambiare l’estetica. Anche se con 500 negozi e un magazzino impressionante non si può dire sia un’impresa facile. Ma poco a poco ci siamo riusciti. Certo, all’inizio c’era parecchia apprensione.
Come è avvenuta la scelta di Alessandro Michele come direttore creativo?
Volevo partire dal talento, ma anche dall’emozione. All’inizio avevamo una rosa di candidati in cui Alessandro non c’era, ma non è scattata la scintilla con nessuno. Poi ho conosciuto lui, l’ho chiamato per rassicurarlo che avrebbe mantenuto il suo posto di responsabile delle calzature, una mansione che aveva da oltre un decennio. E già in quella telefonata ho sentito il feeling. Ci siamo incontrati nel suo appartamento di Roma e si è presentato con le pantofole in pelo. Ho pensato “questo è bello matto”, e io cercavo un pazzo. E da pazzo, ha accettato di creare una collezione in 5 giorni: se mi avesse detto di no, non sarebbe stata la persona giusta.
Il momento di svolta?
Ci ha messo qualche mese ad arrivare: con la prima collezione i feedback sono stati discordanti, e in particolare i social media sono stati molto duri. Ma poi, a maggio 2015, la sfilata di New York ha messo tutti d’accordo. Lì ho capito: avevamo svoltato.
Quali sono le carte da giocare per cavalcare questo stato di grazia?
Bisogna sfruttarlo con una logistica e una supply chain perfetta e flessibile, in grado di reagire a velocità incredibile ai cambiamenti dei flussi turistici e dei comportamenti dei consumatori.
Quali sono gli obiettivi a medio termine?
Contiamo di raggiungere presto i 6 miliardi di ricavi dai 4 attuali. Per farlo, dobbiamo ragionare come una startup, non come un ministero: il budget dev’essere double digit. Sono convinto che a vincere sarà chi innova e chi si prende dei rischi.
Tra un anno cosa vorrebbe si pensasse di Gucci?
Mi piacerebbe che i negozi fossero percepiti dai clienti come dei candy shop di lusso, da cui uscire felici e pieni di dolci.
E nel 2020 come si vede?
Non faccio programmi a lungo termine, ma l’importante resta sempre divertirmi in quello che faccio.
di Caterina Zanzi