Con le sue idee, ha contribuito a cambiare brand come Kartell, Driade e Flos. Oggi, parla chiaro sulle nuove sfide: “Le aziende del mobile sono troppo piccole”.
“Detesto il lusso. Non farei mai nulla che possa essere considerato tale”. L’esordio di Philippe Starck riassume il suo credo. Incontriamo, l’archistar in fiera a Verona. È atterrato da Parigi per presentare a Progetto Fuoco, mostra internazionale di stufe e caminetti, il suo debutto nel mondo della combustione con un concept, Speetbox, realizzato per il gruppo Seguin con il sostegno tecnologico di Speeta. Si tratta di un progetto a cui Starck, 67 anni compiuti a gennaio, sostiene di essersi dedicato per convinzione ecologica e affetto verso il caminetto, che è stata una presenza costante della sua esistenza.
Lei ha sempre posto l’accento sulla funzionalità del design. Si può dire che questo aspetto sia alla base della sua filosofia creativa?
Mi considero un designer funzionalista post freudiano. Pur avendo sempre voluto realizzare idee divertenti, non ho mai pensato che potessero essere fini a se stesse. La funzione di un prodotto può e deve essere molteplice, quasi universale, perché ogni oggetto contiene una visione, un’etica, una sua capacità di rispondere a diverse necessità.
Ci sono ambiti in cui non si è ancora cimentato e che le piacerebbe affrontare?
Faccio fin troppo, ho calcolato una media di 12 ore di lavoro quotidiano e una dozzina di nuovi prodotti concepiti ogni giorno. Mi considero fortunato perché sono sempre impegnato a elaborare nuove idee. Per esempio, ho appena ultimato, su commissione privata, la più grande barca della storia dell’umanità.
E questo non lo considera lusso?
Preferisco definirlo un “laboratorio di nuove tecnologie”. È, se vogliamo, il lusso moderno, non quello tradizionale. Quando ho disegnato lo yacht di Steve Jobs, l’obiettivo non era realizzare un’imbarcazione “ricca” ma inserire in ambito navale delle tecnologie inedite. È chiaro che questo tipo di progettazione finisce per essere incredibilmente costosa, ma non può essere considerata “ricerca del lusso”. È, semplicemente, “vera ricerca”, la stessa che ho applicato quando mi sono dedicato agli apparecchi medicali, o alle scarpe realizzate con Ipanema.
Le piacerebbe disegnare un’automobile?
Non mi interessano le auto tradizionali, che peraltro non uso… Mi sono invece dedicato alle auto elettriche e ho fondato una società che si occupa di bici elettriche.
Nella moda, oltre alle scarpe, pensa di potenziare la sua attività anche nell’abbigliamento?
Anni fa, presentai al Pitti una collezione di maglieria in cashmere e vari abiti per Ballantyne, e fu a giudizio di tutti una meravigliosa collezione. Ricordo però che, quello stesso giorno, la catena giapponese Uniqlo mise in vendita prodotti simili a 39 euro, mentre i miei uscivano a 500 euro. Allora pensai che tutto ciò fosse ridicolo: la modernità è avere il cashmere a 40 euro, non a 500! La collaborazione finì lì. A questo punto, se dovessi tornare a disegnare per abbigliamento, probabilmente lo farei per Uniqlo o per H&M.
E nel beauty?
A settembre debutteremo con una nuova fragranza, risultato di quattro anni di studio, realizzata partendo da materie prime mai utilizzate per la produzione di profumi e sviluppata dal miglior “naso” del mondo. La gente sarà stupita dal risultato. Tra tutte queste attività, manterrà le collaborazioni avviate con i brand dell’arredamento? Continuerò a disegnare per Kartell, Driade e Flos, ma l’azienda più avanzata con cui sto collaborando è senza dubbio Tog (controllata dal gruppo brasiliano Grendene, proprietario anche di Ipanema, ndr), perché unisce la produzione seriale, che abbassa i costi, alla customizzazione; inoltre, opera solo tramite web, ovvero il canale a cui tutti, anche nell’arredo, si affideranno sempre più in futuro. Ciò non toglie che con le aziende italiane ci siano ottimi rapporti e collezioni in evoluzione, come ad esempio quella, davvero fantastica, che ho sviluppato lo scorso anno per Flos: voglio un gran bene a Piero Gandini! Ma trovo che nell’arredamento ci sia un gran bisogno di cambiare…
In quale direzione?
Occorrono nuovi concept d’impatto sociale, sentimentale ed economico. Il bel design c’è ovunque, ma viene proposto a prezzi perlopiù inaccessibili. Quell’approccio deve essere resettato. C’è un problema di natura politica: la progettualità va sviluppata guardando alla giusta posizione sociale e secondo me questo oggi non avviene. L’industria però è in fase di cambiamento, e la svolta sta avvenendo proprio ora, con il passaggio di mano di alcune aziende e con l’ingresso dei fondi di investimento nel loro capitale. È un passaggio strutturale.
Con quali conseguenze?
L’ingresso della finanza nel settore del mobile, come ogni cosa, comporta aspetti positivi e aspetti negativi. Le famiglie che hanno gestito finora le aziende hanno espresso persone fantastiche, perché nessuno potrà mai sostituire Claudio Luti o Piero Gandini o Enrico Astori, ma occorrono altre dimensioni. L’industria dell’arredamento è davvero troppo piccola per gestire la richiesta del mercato, perché ora ci sono miliardi di persone da servire. Dovrà crescere.
La nascita di colossi del mobile rischierà di penalizzare la capacità innovativa dei designer?
Preferisco leggere in positivo quest’evoluzione, interpretarla come occasione di rilancio di aziende in difficoltà, come è accaduto a Driade, la cui attività era condizionata da questioni familiari e che, con l’ingresso di nuovi soci finanziari, ha trovato persone che stanno facendo bene, portando rinnovate energie. Quanto al design, non credo che sia in grado di salvare il mondo… deve però, onestamente, cercare di rendere migliore la vita agli uomini.
Il progetto che le manca?
Vorrei riuscire ad applicare nella casa la stessa qualità esistente nell’industria automobilistica e agli stessi prezzi. Nel mondo, ci sono auto che costano 10-15 mila euro e assicurano altissime prestazioni tecnologiche. E lo dico io, che non amo le macchine! Nella casa non è così: i costi sono eccessivi se confrontati con quello che ti permettono di ottenere in cambio. Sto cercando, pertanto, di convincere alcune grandi società a investire in questa direzione perché sono certo che, un giorno, l’auto potrebbe non essere più necessaria, ma la casa lo sarà sempre.
di Andrea Guolo