L’export 2015 è un successo a metà, si poteva fare meglio. Mancano i nuovi mercati. Va semplificata l’offerta e riallocati i fondi. Pesa il limite dimensionale.
Il bicchiere non è del tutto pieno. Il tanto celebrato primato mondiale del vino italiano, con il superamento quantitativo dei francesi avvenuto nel corso del 2015, è il dato che meno interessa ai nostri produttori. L’attenzione è rivolta ai valori, cominciando da quelli dell’export. Alla vigilia del Vinitaly che rappresenta l’appuntamento più importante per l’Italian wine in prospettiva internazionale, nel settore ci si interroga se il +5,3-5,4% registrato lo scorso anno sia da considerare un risultato positivo o meno. Le posizioni sono differenti, tra chi evidenzia che finché c’è crescita tutto va bene, e chi invece la considera inferiore al potenziale raggiungibile in un un contesto favorevole dal punto di vista valutario (con l’euro debole a sostenere le esportazioni in area dollaro) e di tendenza nei consumi (con il boom degli spumanti e il Prosecco a dominare la scena delle bollicine).
IN MEDIO STAT VINO
Una sintesi intermedia arriva da Sandro Boscaini, presidente di Federvini e numero uno di Masi Agricola. “Il dato – dice – è certamente positivo, ma se spacchettiamo le cifre e guardiamo in profondità, possiamo individuare qualche sentore di mal di pancia. All’exploit degli spumanti fa da contraltare l’arretramento dei vini fermi, e questo in parte preoccupa. Considerando però il frazionamento dei produttori italiani e la loro scarsa capacità di fare sistema, aver ottenuto un incremento di valore a fronte di un calo di quantità mi pare positivo, se quel che vogliamo è qualificare il nostro prodotto puntando alla fascia premium”. Se ragioniamo in valori, tra Francia e Italia rimane un abisso. “Celebrare falsi successi – evidenzia Piero Mastroberardino – è assolutamente inutile, perché ciò che conta non sono i volumi, ma la capacità di generare valore”. Mastroberardino, presidente dell’Istituto Grandi Marchi (che raggruppa 19 brand “nobili” e rappresentativi della maggior parte del territorio nazionale) e imprenditore con la sua azienda basata in Irpinia, invita i colleghi ad abbandonare le strategie di price competition e a ragionare sugli elementi che potranno far scattare l’upgrade. “In questi anni – spiega – abbiamo dato troppo peso alle denominazioni, senza supportarle con una valorizzazione adeguata dei brand privati; peraltro, il proliferare di nuove denominazioni ha creato più confusione che beneficio. Senza il traino determinante delle marche aziendali, il brand territoriale non crea di per sé valore. Occorre inforcare la lente del consumatore e smetterla di ragionare secondo le logiche del produttore”.
MIRAGGIO EMERGENTI
C’è poi un contrasto tra la forza che il vino italiano ha acquisito in alcuni mercati, quelli ‘tradizionali’, e la sua incapacità di aggredire i Paesi emergenti. Prendiamo la classifica dell’export per destinazioni: le prime cinque, messe assieme, valgono il 67% del giro d’affari complessivo, le prime tre (Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna) oltre il 55 percento. Per trovare un vero emergente, in graduatoria, occorre scendere al decimo posto e a meno di 90 milioni di euro: si tratta della Cina, che ha superato di poco la Russia, in calo di trenta punti percentuali per le note difficoltà legate a rublo debole, crollo del prezzo del petrolio e tensioni internazionali. Proprio la Russia, negli anni migliori, era stato individuata come testa di ponte per l’espansione del vino italiano verso oriente. Si trattava di un terreno favorevole, per la sua apertura verso i nostri vini e la predilezione per alcune tipicità, come gli spumanti dolci del mondo Asti. La crisi ha complicato i piani e ora nessuno si aspetta un recupero a breve, vista peraltro l’intenzione dei russi di potenziare le produzioni in alcune aree nel sud del Paese. L’ingresso di nuovi player è un fenomeno generale nel mondo del vino e se da un lato accompagnerà la crescita della conoscenza vinicola nei Paesi più ‘freschi’, dall’altro rappresenterà un aspetto concorrenziale di cui tener conto, rendendo necessaria la svolta italiana verso il prodotto di fascia superiore. “Si piantano nuovi vigneti in tutto il mondo – afferma Domenico Zonin, presidente di Unione Italiana Vini – e a fronte di una maggiore offerta, notiamo una crescita abbastanza contenuta dei consumi. Detto questo, mi pare che il vino italiano sia sulla giusta strada. Il risultato 2015 sarebbe stato ben più generoso se non avessimo dovuto subire la ‘botta’ della Russia e la riduzione in altre aree, tipo il Brasile. Ciò che conta è l’ascesa graduale del prezzo medio e il miglior posizionamento ottenuto”.
TROPPI BRINDISI
Il troppo però stroppia. L’Italia del vino può vantare delle unicità straordinarie, fondate sulle sue tipicità autoctone e su un territorio che dà frutti dalla provincia di Bolzano alle isole siciliane, ma tanta abbondanza finisce per creare confusione tra i consumatori dei nuovi mercati, che hanno bisogno di identificare una nazione con pochi prodotti chiari, esattamente come i francesi hanno fatto puntando su Bordeaux e Champagne per trainare gli altri vini. “Dobbiamo semplificare l’offerta a livello internazionale”, afferma Andrea Sartori, amministratore del gruppo vinicolo veronese Sartori e presidente del consorzio Italia del Vino, con dodici aziende che esportano per oltre 400 milioni di euro. “Abbiamo troppe denominazioni, talvolta sconosciute all’estero – continua Sartori – e spesso la politica spinge ottusamente su quelle che hanno pochissime chances di imporsi. Occorre concentrare il tiro su alcune denominazioni classiche e su altre innovative, ma senza disintegrare le risorse. Ciò vale soprattutto per la Cina, dove il primo passo è creare una cultura dei vini italiani, mancando l’appoggio della ristorazione e in buona parte del sistema Italia. Le priorità sono focalizzare e semplificare; se non lo capiamo, non otterremo mai risultati”. Naturalmente, la presenza nei mercati tradizionali ha assunto valenza strategica, con possibilità di ulteriore crescita, e ciò rende incomprensibili certe posizioni politico/burocratiche emerse sui contributi europei a fondo perduto per incentivare l’export, i cosiddetti Ocm, che sarebbero vincolati a operazioni nei nuovi mercati: “Così si penalizza chi crea iniziative negli Stati Uniti e in Giappone per premiare chi magari le fa in aree non strategiche come la Cambogia!”, lamenta Mastroberardino. Il punto critico dei nuovi mercati è che, Cina a parte, non ce ne sono poi molti in grado di promettere i risultati che l’Italia ha saputo ottenere, extra Ue, negli Stati Uniti, in Canada o in Giappone. Esistono infatti barriere doganali e fiscali, che penalizzano chi esporta, ad esempio, in America Latina e in India, e problematiche di tipo sociale o religioso che si concretizzano nella proibizione del prodotto alcolico, che pesano in un’area strategica per altri settori del made in Italy come il Middle East. Si può obiettare però che queste barriere non valgono soltanto per gli italiani. E allora la scusa diventa una giustificazione per i propri fallimenti, esattamente come sta accadendo in Cina. Occorre dunque cambiare il tiro ed essere capaci di sfondare anche laddove manchino i punti di appoggio, creandoli con politiche mirate a ciascun Paese, superando i limiti dimensionali tramite aggregazioni e presentandosi sul mercato senza la tentazione della svendita. “Vale anche per le aziende cooperative – dice Boscaini – che non costituiscono affatto un limite alla nostra internazionalizzazione, ma devono avere maggiori ambizioni, visto che il loro prodotto le giustifica, aggiustando il tiro del prezzo e puntando a scaffali più prestigiosi anche dentro la grande distribuzione. I privati invece, dalle coop, dovrebbero apprendere la capacità che hanno avuto nel fare massa critica”.
di Andrea Guolo