Il presidente dei vini di Lvmh traccia la mappa globale delle strategie di sviluppo del gruppo. La formula? “Tutti i mercati in crescita sono anche zone di produzione”.
Siamo molto ottimisti. Uno splendido futuro si prospetta, a livello globale, per i vini di alta qualità”. Jean-Guillaume Prats è presidente e direttore generale di Estates&Wines, la divisione vini di Moët Hennessy, cui fanno capo tutte le attività extra champagne ed extra spirits del gruppo Lvmh. E&W opera nel mercato con sette brand (Cloudy Bay, Cape Mentelle, Newton, Terrazas de los Andes, Cheval des Andes, Bodega Numanthia e Ao Yun), che rappresentano le produzioni di quattro continenti. Prats è a Düsseldorf per Prowein, e questa è già una notizia, perché si tratta della prima partecipazione assoluta come espositore nella storia della società francese. “Non lo abbiamo mai fatto, nemmeno a Vinexpo – sottolinea il manager – perché, come gruppo Moët Hennessy, disponiamo di una distribuzione consolidata in tutti i principali mercati di destinazione e quindi non avvertiamo l’esigenza di avviare nuovi contatti. Questa volta, però, per i nostri vini fermi, aveva senso presentare idee e progetti a trade e stampa internazionali. Perciò siamo qui”.
Come divisione, che programmi avete in cantiere?
Una settimana fa ero in Cina, dove abbiamo effettuato uno dei nostri investimenti con il brand Ao Yun, che produce vini tra le vette dell’Himalaya. La nostra presenza produttiva si sta ampliando nei mercati emergenti, tant’è che con Chandon oggi siamo presenti anche in India e Cina. Il prossimo Eldorado sarà l’Africa, e non mi riferisco soltanto al Sudafrica: ovunque si possa produrre vino, valutiamo opportunità.
Perché tanta attenzione verso aree così inusuali?
Da un lato, perché siamo ottimisti sull’andamento generale dei consumi, caratterizzato dalla logica del ‘bere meno ma bere meglio’, e dall’altro perché ogni mercato chiave per il wine business è un territorio che non solo consuma, ma produce anche vini locali. Perfino l’Inghilterra, che è sempre stata un importatore puro, ora sta puntando sullo spumante nel Kent. Il fatto che in India e Cina si stiano piantando sempre più vigneti ne è una conferma. Lo stesso accade in Brasile, dove cresce rapidamente il consumo dei vini frizzanti. E anche lì noi siamo presenti.
Come sta cambiando il consumatore?
L’ingresso dei cosiddetti millennials, consumatori orientati al vino più che ai superalcolici, sta cambiando in parte lo scenario, perché i giovani di età compresa tra 25 e 35 anni sono più aperti di un tempo, hanno voglia di sperimentare e di guardare al di là dei propri confini. Se un tempo un italiano generalmente stappava bottiglie provenienti dal territorio in cui viveva, e lo stesso si può dire dei francesi o dei portoghesi, oggi ama degustare anche vini che arrivano da California, Nuova Zelanda o Australia. Per questo ritengo necessario offrire un ampio ventaglio di scelte.
I consumi aumenteranno solo nei nuovi mercati o anche in quelli tradizionali?
Se consideriamo gli Stati Uniti, che sono diventati il primo mercato mondiale per valore, penso che quanto è stato fatto rappresenti una goccia nel mare. Stiamo parlando di un consumo pro capite di 15 litri l’anno, di gran lunga inferiore rispetto a Francia, Italia, Spagna e anche Germania. Consideriamo, inoltre, che in zone come il Midwest, con una popolazione comparabile a quella della Germania, quasi nessuno beve vino!
Oltre a Cina e India, quali saranno i nuovi mercati chiave per i futuri consumi?
Ci aspettiamo notevoli risultati dall’America Latina, a partire dal Messico che, non a caso, è un paese con forti produzioni nella Baja California, attorno a Santo Tomàs, presenta una popolazione mediamente giovane e sta già offrendo interessanti segnali di crescita. Lo stesso accadrà in Colombia e, non appena si saranno sistemate le cose, anche in Venezuela. Nel Brasile, che ho già nominato, la situazione sta lentamente migliorando e le prospettive sono ottime. Non dimentichiamo, infine, la Russia che ora sta soffrendo, ma che aveva raggiunto il podio tra le principali destinazioni degli spumanti, con una particolare predilezione per quelli dolci.
Cosa potrebbe ostacolare la crescita?
Vedo due nodi da risolvere. Il primo è legato al consumo di vini bio e sostenibili: sono aspetti che il consumatore ormai dà per scontati perché, nella sua logica, un vino deve essere rispettoso della natura e allineato ai principi dello sviluppo sostenibile, ma per le aziende tutto ciò comporta un costo. Spetta a noi, pertanto, individuare la giusta modalità per far accettare al cliente finale il pagamento di una somma aggiuntiva in cambio di questi valori.
E il secondo?
Se penso ai millennials, non li vedo per nulla propensi ad acquistare vini di piccoli produttori, variando le loro scelte giorno per giorno in base alla curiosità di scoprire territori e marchi sconosciuti. Occorrono brand forti e riconoscibili, in grado di offrire certezze in termini di qualità e immagine. Ciò vale soprattutto per coloro che si accostano al vino senza aver acquisito particolari conoscenze. L’altra sfida, pertanto, consiste nel costruire politiche di branding basate su prodotti che non respingano il consumatore e che siano in grado di accompagnarlo in un percorso di conoscenza e approfondimento. A riguardo, considerando i marchi di nostra proprietà, direi che Cloudy Bay rappresenta uno dei migliori esempi mondiali, essendo in grado di soddisfare gli esperti e al tempo stesso chi muove i primi passi nel vino.
Avete in programma acquisizioni in Italia?
Se qualche opportunità si presentasse, ci piacerebbe molto poter investire nel vostro Paese. Lo faremmo soltanto in presenza di qualcosa di eccezionale e unico, allineato al livello delle nostre proprietà in Francia.
Cosa occorre cambiare, secondo lei, nella modalità di comunicazione del vino?
Occorre costruire la desiderabilità del brand e, per farlo, esistono due modalità principali. La prima è metterci la faccia, affinché il consumatore possa dire di conoscere chi c’è dietro quel prodotto, che sia il titolare o un manager o chi gestisce l’azienda agricola. L’altro è trasmetterne i valori, affinché il nuovo e potenziale cliente possa dire che questi rientrano nella sua visione del mondo. In ogni caso, occorre lavorare sulla costruzione di un desiderio, creando attorno al brand e ai suoi prodotti un’autentica aura di magia.
di Andrea Guolo