Le campagne Detox e Clean Clothes, e i fatti di Doha hanno acceso i riflettori sul tema. Il settore è stato prima costretto ad adeguarsi. Poi ha preso consapevolezza.
Promossi e bocciati in sostenibilità ambientale ed etica sul lavoro. Oltre alla prova del mercato in termini di vendite, ora le griffe e in generale i gruppi del fashion internazionali si trovano sempre più spesso nel mirino delle Ong. Negli ultimi anni, i riflettori sono stati accesi (creando non pochi problemi di immagine) da campagne rappresentative come quelle di Greenpeace, Clean Clothes e Peta, nonché dall’emersione di situazioni critiche lungo la catena del lavoro che hanno codotto alla tragedia di Doha nel 2013. Intenzionate a passare ai raggi X le fasi di produzione, compresa ovviamente la fase dedicata alle lavorazioni dei conto terzisti, le Ong hanno lanciato da anni accese battaglie nel nome della trasparenza, con l’obiettivo di garantire ai consumatori un acquisto eticamente corretto.
LA MODA SI DISINTOSSICA
A lanciare la sfida sul capitolo ambiente c’è in prima linea Greenpeace. Nel 2011 ha lanciato la campagna Detox per chiedere ai marchi della moda di impegnarsi nell’eliminare l’utilizzo di tutte le sostanze chimiche pericolose entro il 2020. Due anni più tardi, nel 2013 Greenpeace ha pubblicato il Detox catwalk per valutare le misure adottate dalle aziende di abbigliamento nei confronti dei loro impegni Detox. Quello che è emerso due anni fa e che è stato pubblicato all’interno di una apposita sezione del sito di Greenpeace è che, sostanzialmente, il fast fashion è più green del lusso e del prêt-à-porter. Inditex, Mango, H&M, le grandi catene come C&A, Primark e M&S hanno ricevuto il semaforo verde della sostenibilità come anche Adidas, Benetton, Burberry, Esprit, G-Star, Levi’s, Limited Brands e Fast Retailing. La cinese Li Ning e il colosso dello sportswear Nike, sempre secondo quanto riportato nel report del 2013, hanno iniziato il percorso, ma senza raggiungere ancora obiettivi concreti mentre Giorgio Armani, Dolce & Gabbana, Versace, Hermès, Lvmh, Metersbonwe, Pvh, Vancl, Bestseller, Diesel e Gap allora sono stati etichettati come “pericolosi”. Se la parte a valle della filiera italiana sembra avere ancora molta strada davanti per incontrare il riconoscimento di Greenpeace – ed evitare le cicliche contestazioni degli ecologisti – il settore a monte sembra essere più reattivo. Miroglio, Canepa, Berbrand, Tessitura Attilio Imperiali, Italdenim, Besani, Zip e Lanfranchi hanno deciso di sposare la causa ecologista di Detox che, peraltro, per un tipo di industria dal forte impatto ambientale in termini di utilizzo di acqua ed energia, può portare anche un risparmio economico. Ultimo della lista un intero distretto industriale, quello di Prato (rappresenta circa il 3% della produzione tessile europea). Una ventina le aziende che hanno aderito. Da loro escono prodotti realizzati per marchi come Burberry, Prada, Valentino, Armani e Gucci, vale a dire molti di quei brand “bocciati” da Greenpeace.
I DIRITTI DELLA MODA
Dall’ambiente ai diritti dei lavoratori il passo è breve. Ma anche in questo caso le lacune, soprattutto da parte dei grandi gruppi del fashion, sono molte secondo quanto denunciato da Clean Clothes Campaign, una ong nata nel 1989 con l’intento di lottare per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori dell’industria della moda e dello sportswear, in particolar modo delle piccole aziende che producono nei Paesi del terzo mondo per conto dei colossi del settore. Il braccio italiano dell’organizzazione si chiama Abiti Puliti. L’associazione, che ha dalla sua anche la campagna verso l’utilizzo della sabbiatura nella produzione di jeans, è stata tra le prime a schierarsi contro i big del fashion dopo la tragedia di Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, il peggior incidente industriale nel settore della moda con oltre 1.100 vittime e prima ancora dell’incendio della fabbrica Tazreen Fashion sempre in Bangladesh nel 2012. Allora, Walmart e El Corte Inglés sono stati oggetti di campagne mediatiche da parte delle divisioni locali dell’ong per non aver pagato o risarcito adeguatamente i lavoratori, come anche il distributore tedesco Kik e il marchio C&A (che poi ha siglato un accordo). Tra le italiane, sono finite nel mirino della ong anche Piazza Italia e Benetton. L’entusiasmo mediatico nei confronti di una moda più sostenibile sotto ogni aspetto non sembra essersi affievolito. Nel 2014 Carry Somers e Orsola de Castro, disegnatrici di moda e sostenitrici del commercio equo e solidale, hanno lanciato il Fashion Revolution Day, il giorno dedicato alle vittime di Rana Plaza. Con il claim #whomademyclothes le due creative si sono proposte di sensibilizzare l’acquisto responsabile da parte dei clienti. Come? Facendo postare sui social network loro una foto mentre indossano un capo di abbigliamento al contrario. Il prossimo appuntamento sarà il 26 aprile. Le griffe sono avvvisate.
di Milena Bello