In attesa delle decisioni del Cfda, il fashion business si interroga sul destino delle sfilate. Al centro del dibattito, l’apertura al pubblico e i nuovi tempi di produzione.
Il vento del cambiamento soffia da New York. È il 13 dicembre 2015 quando il Council of Fashion Designers of America (Cfda), associazione di categoria che rappresenta oltre 350 stilisti statunitensi, affida alla società di consulenza Boston Consulting Group uno studio che potrebbe ridefinire le sorti delle sfilate, stimando, a partire dai primi giorni del 2016, circa sei settimane per trarre delle conclusioni. Alla base del brain storming, l’impatto dei social media e la confusione che la diffusione immediata di fotografie delle collezioni genera nei consumatori, la cui curiosità rischia di svanire prima dell’arrivo dei prodotti negli store. A lanciare il messaggio è Steven Kolb, CEO del Cfda: “È da tempo – dice – che stilisti, retailers e giornalisti si interrogano sul senso del format attuale delle settimane della moda. Da qui l’esigenza di un’analisi accurata e di un piano d’azione per il futuro delle sfilate”. Sulla stessa linea Diane Von Furstenberg, presidente della stessa associazione: “La possibilità di diffondere in tempo reale, attraverso i social network, le immagini delle nuove creazioni porta i potenziali clienti a richiedere subito in negozio abiti che non saranno consegnati prima di sei mesi”. Tra le ipotesi al vaglio di New York ci sarebbero presentazioni semestrali a porte chiuse di collezioni ready-to-buy, dedicate agli addetti ai lavori, e fashion show aperti al grande pubblico, programmati a ridosso dell’arrivo delle linee sul mercato e dunque con un focus sulla stagione corrente. Una riorganizzazione in chiave “pop” che insegue l’immediatezza dell’ipertesto virtuale, sempre più lontano dalle logiche di distribuzione tradizionali. Sell, sell, sell. Questo l’imperativo del possibile new deal della moda, business che non si spegne mai, meccanismo di cui le sfilate rappresentano solo un ingranaggio, e che da universo esclusivo diventa condiviso sul web.
I CASI BURBERRY E TOM FORD
Ad anticipare il cambiamento le scelte di alcune griffe. Già lo scorso anno, New York è stata precursore del fenomeno ‘democratizzazione’. Ha fatto molto scalpore lo scorso settembre la decisione di Givenchy di aprire al pubblico la sfilata della primavera/estate 2016, con biglietti resi disponibili online e posti riservati a studenti e docenti delle scuole superiori di moda Fit, Parsons e Pratt Institute. O ancora Marc Jacobs, che per la stessa stagione ha optato per una passerella allo Ziegfeld theater, sulla 54th street, dove un tappeto rosso su strada lungo l’isolato ha permesso di coinvolgere i passanti, definendo la nuova attitude della moda. Più attuale il caso di Burberry, che, come comunicato in via ufficiale a inizio febbraio, “dal prossimo settembre passerà dagli attuali quattro a due show all’anno, con un format seasonless, diretto e personale, pensato per un pubblico globale”. I défilé di settembre e febbraio porteranno insieme in passerella le collezioni donna e uomo, facendo calare temporaneamente il sipario sugli appuntamenti maschili di gennaio e giugno, con outfit acquistabili in boutique e online subito dopo l’evento. Una scelta consumer oriented che è solo l’ultimo atto di una strategia che già prevede un’anteprima delle passerelle sui social e campagne pubblicitarie scattate e diffuse live via Instagram. Calendario rivoluzionato anche per Tom Ford che, già promotore di format a porte chiuse al suo debutto con il womenswear nel 2010, presenterà insieme le collezioni uomo e donna per l’autunno/inverno 2016-17 nel mese di settembre, per poi farle approdare direttamente sul mercato: “I calendari delle sfilate – ha dichiarato lo stilista texano a Wwd – e l’intero fashion system a cui siamo abituati appartiene ormai a un’altra epoca. Spendiamo un’enorme quantità di denaro ed energia per degli eventi che creano interesse troppo in anticipo rispetto all’arrivo delle collezioni in boutique. Uno show a ridosso della distribuzione può invece condizionare le vendite in modo positivo”. Motore del nuovo approccio anche la volontà delle grandi maison di tutelare la propria creatività dalle imitazioni del fast fashion, che beneficiano della fuga di immagini, di tempi di replicazione molto più ridotti (si parla di settimane contro i quattro mesi impiegati in media da una griffe ndr) e di una distribuzione capillare.
TRA MODA E INTRATTENIMENTO
La moda si mette in discussione e si interroga su un sistema nato oltre 50 anni fa, costretta a fare i conti con consumatori nuovi, in gran parte nativi digitali, che vogliono subito quello che vedono sulle passerelle e che accedono a queste ultime con la chiave universale del web o, come per il fenomeno Yeezy, dandosi appuntamento al cinema. La proposta arriva infatti dal cantante Kanye West, che ha presentato la linea Yeezy Season 3 e, in contemporanea, il nuovo album “Waves”, con un evento di moda e musica al Madison Square Garden di New York, trasmesso in diretta nella giornata di aperture della New York fashion week in diversi cinema del mondo, tra cui gli italiani Uci Cinema Bicocca di Milano e Uci Cinemas Porta di Roma nella Capitale. A fronte delle perplessità sul talento di West nel nuovo ruolo di stilista, un dato emerge chiaro: con i biglietti per lo show divenuti sold out negli Stati Uniti in dieci minuti, il rapper potrebbe aver trovato la formula per allargare il pubblico degli show. Ne sanno qualcosa i siti web come Queen Bee, TicketSupply, Millionaire’s Concierge, On Point e Total Management che mixano moda e turismo, offrendo biglietti da 950 a 3.500 dollari per una singola sfilata, talvolta comprensivi di accesso al backstage, incontri con gli stilisti al termine dello show, soggiorno in hotel e shopping experience. Il fenomeno sembra in crescita, a livello internazionale, tanto che il sito 1Boxoffice sta già pubblicizzando la vendita di ticket per la New York fashion week del prossimo settembre, e Providing Tickets, portale olandese, assicura che la richiesta si sta espandendo anche per le passerelle di Milano, Parigi e Londra con biglietti a circa 3.500 euro.
LA POSIZIONE DI CAMERA MODA
A uniformare il panorama e a tracciare il nuovo profilo delle settimane della moda saranno le decisoni del Cfda, attese entro la fine di febbraio, ma anche le eventuali contromisure delle associazioni europee Bfc-British Fashion Council, Fédération française de la couture e Camera Nazionale della Moda Italiana, chiamate a riflettere sui tempi di presentazione delle collezioni in un’ottica consumer friendly, sulla capacità effettiva del settore di produrre prima di sfilare. La direzione scelta a Londra sembra chiara: il Bfc ha fatto un ulteriore passo verso la democratizzazione delle sfilate siglando una partnership con la media company Ocean Outdoor per la trasmissione in streaming degli eventi della London fashion week con 60 maxi schermi distribuiti tra Londra, Birmingham, Bristol, Edimburgo, Glasgow, Leeds, Liverpool, Manchester e Newcastle. “Questa è un’ottima opportunità per raggiungere consumatori abituali e nuovi in tutto il Regno Unito”, ha dichiarato il CEO del Bfc Caroline Rush, per la quale il nuovo deal renderà accessibili le sfilate a oltre 35 milioni di consumatori nel Regno Unito, con un ritorno di visibilità soprattutto per i brand emergenti. Nessuna posizione ufficiale al momento, ma un orientamento volto alla tutela della creatività è invece quello che emerge dalle dichiarazioni di Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della moda italiana, a Pambianco Magazine: “Siamo aperti al confronto con il fashion system internazionale. Ogni griffe può fare le proprie scelte, c’è già chi porta in passerella una selezione di capi e accessori see-now-buy-now, così come non è una novità mixare uomo e donna. Il compito di una realtà come la nostra è però quello di salvaguardare i cardini del made in Italy: la creatività, il valore della nostra filiera, grazie alla quale siamo primi in Europa col 41% della produzione di abiti e accessori, e, ovviamente, i giovani talenti. Sfilare e uscire direttamente sul mercato finirebbe per penalizzare la ricerca stilistica e quella delle materie prime, a vantaggio di scelte che garantiscano il sell out maggiore”. A rischio, secondo l’imprenditore, CEO di Costume National, la stessa figura del direttore creativo, che diverrebbe sostituibile, laddove siano le logiche di marketing a prevalere, da un merchandiser o da uno stylist. Imprescindibile l’apertura ai social network, con Twitter Italia scelto come partner per il racconto delle settimane della moda milanese, ma ancora lontano dal superare definitivamente la convinzione che l’esclusività possa essere il vero lusso della moda, la vera chiave dell’aspirazionalità.
di Giulia Sciola