Correva l'anno 1996. E la Cina non faceva paura a nessuno, a partire dai padroni delle griffe del made in Italy. Ma Arnaldo Caprai e Giorgio Cariaggi da Foligno già scavallavano dalle parti di Shijiazhuang, nel Nord del Paese del Drago dove, nei pressi del confine con la Mongolia, pascolano le pecore più belle e sane del mondo. «Quelle che danno il cachemire bianco, brillante, il più bello che ci sia», dice Caprai, 72 anni, che si occupa di cachemire ma non solo: anche merletti, vini di pregio (il nobilissimo Sagrantino di Montefalco) e tessile di qualità.
«Da allora, racconta Caprai, abbiamo una joint venture con i cinesi che ci riforniscono di materia prima che lavoriamo in Italia». Un bel vantaggio in termini di prezzo ma, soprattutto, di qualità. «Da 100 chili di lana, dice, con la pulizia ne va via il 40-45 per cento. Poi dopo la giarratura, tocca a noi».
Il risultato? I conti di Caprai, marchio Cruciani, vanno a gonfie vele nell'anno della crisi della maglieria; con un fatturato da 50 milioni di euro. L'export sale, anche in Cina. «Occorre puntare sulle nicchie specializzate. È l'unico futuro possibile per noi. Anche perché, tra le altre cose, non abbiamo nemmeno più la manodopera specializzata per fare i grandi numeri nel tessile: investire e conquistare nicchie, è l'unica strada per essere, come me, orgogliosamente made in Italy».
Estratto da Finanza&Mercati del 27/07/05 a cura di Pambianconews