Crisi da Grande Depressione per le aziende tessili statunitensi: nel 2001 hanno chiuso i battenti 124 aziende -contro le 46 del 2000- e negli ultimi 18 mesi hanno perso il posto oltre 50.000 lavoratori.
Il numero degli addetti del settore è sceso a quota 448.700, il livello più basso da quando nel 1939 il governo Usa ha iniziato a raccogliere questo dato. La prospettiva è quella di perdere nel giro di 3 anni le quote protezionistiche a cui sono soggette le importazioni dalla Cina, con un'ulteriore escalation della competizione internazionale.
Le radici di questa crisi sono soprattutto finanziarie, con un alto numero di società fortemente indebitatisi per modernizzare la produzione e portare a termine acquisizioni spesso a prezzi gonfiati. Anche la concorrenza delle aziende asiatiche, fattasi più agguerrita negli ultimi anni, ha avuto il suo peso in questo desolante bilancio di fine esercizio.
Il settore tessile americano aveva risposto ai venti di crisi dei primi anni Novanta affidandosi sempre più alla delocalizzazione della produzione in Sud America e nei Caraibi. Ora lo schema appare difficilmente ripetibile, dato che con i paesi di queste aree i prodotti tessili godono già di un regime di quasi totale libero scambio.
L'unica strada percorribile sembra quella di un'ulteriore massiccia automatizzazione della produzione interna, e di un massiccio trasferimento in America Latina degli stabilimenti. L'economista della Wake Forrest University, Gary Shoesmith ha affermato che “la metà dei posti di lavoro del settore sono al sicuro, mentre per l'altra metà è solo una questione di tempo”.