A volte il successo mediatico non basta. Lo testimonia la storia di Sophia Amoruso, imprenditrice che, allora 22enne, nel 2006 ha lanciato il sito di moda vintage Nasty Gal. Negli scorsi giorni il marchio ha presentato in Tribunale i documenti per far ricorso al Capitolo 11 della legge fallimentare statunitense. Un epilogo agli antipodi con la fortuna planetaria della Amoruso: la giovane è stata definita “La Cenerentola del Tech” dal New York Times, per Forbes è l’unica new entry del 2016 nella classifica delle donne Millennials che contano, mentre Netflix trasmetterà l’anno prossimo GirlBoss, la serie ispirata al suo libro autobiografico. La sua creatura, insomma, non è riuscita a brillare (almeno) di luce riflessa, anche se in un comunicato ufficiale l’-tailer annuncia di non volere chiudere del tutto i battenti.
Nasty Gal, dai 10 milioni di dollari di ricavi del 2010, già alla fine del 2015 ne fatturava 300 milioni. A seguire, però, ci sono state alcune scelte di business sbagliate: per esempio, la decisione di aprire store ‘reali’ a Los Angeles e quella di lanciare una propria label di fast fashion a discapito dei prodotti vintage, vero cuore del business di Nasty Gal. Nel tempo, poi, sono state avviate diverse cause per plagio da parte di marchi importanti, che hanno minato la credibilità del sito.
Amoruso nel 2015 si era dimessa dal ruolo di AD, restando però presidente: adesso, non si conosce quale sarà il suo ruolo nella nuova fase di ristruttrazione aziendale. Anche sul destino dei negozi brick-and-mortar del brand aperti negli Stati Uniti c’è riserbo. “La nostra decisione di avviare una ristrutturazione supervisionata dalla Corte ci consentirà di affrontare i problemi di liquidità immediata, ristrutturare il nostro bilancio e le questioni strutturali, tra cui ridurre degli elevati costi di gestione», ha dichiarato il CEO Sheree Waterson in un comunicato ufficiale.